I media al tempo di Trump 2.0

A circa due mesi dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, il sistema politico statunitense sembra non poter fare troppo affidamento sui tradizionali “contrappesi” in grado di controbilanciare l’azione di un esecutivo che sta acquisendo sempre di più il carattere di un potere personale

Il Congresso sembra essere uno spettatore passivo di fronte al dispiegarsi della valanga di ordini esecutivi presidenziali. Il sistema giudiziario appare in difficoltà nel tentativo di contrastare i ripetuti attacchi provenienti da Trump e dal suo sodale Elon Musk, e non è scontato che possa godere del supporto di una Corte Suprema sensibile alle istanze conservatrici del presidente. Le agenzie federali hanno subìto in tempo record un ricambio del personale che assomiglia più ad una epurazione. Infine, la controparte democratica risulta essere ancora in crisi dopo la sconfitta alle elezioni, in mancanza di un leader capace di imprimere al partito una spinta di rinnovamento e di definire una chiara linea politica. 

In questo quadro, non troppo rassicurante, i media potrebbero rappresentare – come spesso si dice – un quarto potere, e fungere da contraltare in questo tsunami politico. Ma Trump 2.0 ne ha anche per loro.

“Ripristinare la libertà di parola”, ma non troppo

I rapporti di Trump con i media sono stati conflittuali già durante il suo primo mandato.

Il magnate ha infatti più volte sostenuto che la stampa avrebbe contribuito a sabotare la sua precedente presidenza, accusando in diverse occasioni i giornalisti di dargli una copertura sfavorevole, diffondere fake news, ed essere corrotti e asserviti ai Democratici. Tutti elementi che hanno valso alla categoria giornalistica l’appellativo di “nemica del popolo”. Questa visione è ulteriormente rafforzata dal fatto che – a suo dire – l’amministrazione di Joe Biden avrebbe contribuito a utilizzare i media per promuovere la narrazione preferita dai Democratici, costruendo un sistema censorio che “ha calpestato i diritti di libertà di parola”.

È in questo contesto, dunque, che Trump firma il giorno stesso del suo secondo insediamento un ordine esecutivo per “ripristinare la libertà di parola e porre fine alla censura federale”.

In realtà, con l’intento di ristabilire l’imparzialità dei media, questa misura ha spinto piattaforme come Meta ad abbandonare i servizi esterni di fact-checking e di moderazione dei contenuti, percepiti dal presidente come forme di censura nei suoi confronti. L’ordine esecutivo, inoltre, ha incaricato con portata retroattiva la Federal Communications Commission di accertare le basi per una revoca della licenza alle emittenti di cui la nuova amministrazione non condivide contenuti e copertura. In altre parole, i media che non si allineano alla visione di Trump sono nemici e vanno contrastati. Chi invece mostra lealtà verrà ricompensato.

Verso un ecosistema mediatico più allineato

L’amministrazione Trump ha allontanato alcune testate ed emittenti, ridefinendo il pool dei giornalisti che a rotazione partecipa ai press briefing dello Studio Ovale, del Pentagono e di altri Dipartimenti federali. Il tutto, scavalcando la White House Correspondents’ Association, l’organizzazione indipendente di giornalisti che si occupa della copertura mediatica della Casa Bianca e del relativo sistema di accreditamento degli organi di informazione. A Reuters e Associated Press, per esempio, è stato bandito l’accesso – tradizionalmente sempre garantito – alla prima riunione di gabinetto del presidente, mentre, al Pentagono, il New York Times, NBC News, e Politico hanno dovuto lasciare il posto a emittenti e testate pro-Trump, tra cui One America News, Breitbart News, e New York Post.

Questa mossa garantisce all’amministrazione di esercitare un controllo stringente su chi pone le domande e su ciò che viene domandato, riducendo la possibilità di ricevere domande scomode e assicurandosi un pubblico di giornalisti più allineati. Non è infatti un caso che Associated Press sia stata esclusa dalla Casa Bianca dopo aver scelto di non riferirsi al “Golfo del Messico” con il nome di “Golfo d’America”, così come ribattezzato da Trump.

Quale futuro per la libertà di stampa? 

Un numero crescente di media sta provando ad alzare la voce, esprimendo preoccupazione per la libertà di stampa o invocando l’intervento dei giudici per ripristinare l’accesso alla Casa Bianca in nome del primo emendamento. Ci sono anche media che, invece, hanno preferito adeguarsi alla volontà presidenziale, accettando di raggiungere accordi economici per chiudere cause pendenti intentate dallo stesso Trump prima di vincere le elezioni. È questo il caso delle emittenti CBS e ABC, accusate dal presidente di aver favorito la candidata democratica nella copertura mediatica dei dibattiti televisivi. Il fatto che un organo d’informazione accetti di patteggiare privatamente con un presidente, anziché affidarsi alla magistratura per risolvere la controversia, è un segnale alquanto preoccupante per l’indipendenza del giornalismo. Inoltre, la semplice minaccia di una citazione in giudizio per un organo di stampa – o tanto più per un singolo giornalista – da parte del governo federale riduce la capacità dei media di svolgere liberamente il proprio lavoro, in particolare per le testate che non hanno le risorse economiche per sostenere eventuali spese legali. Queste circostanze rischiano, tra l’altro, di preparare il terreno alla forma più invisibile di restrizione alla libertà di stampa: l’autocensura.

Ciò che emerge da questo quadro è che Trump sta cercando di alterare, in modo diretto e indiretto, l’ecosistema mediatico a suo favore, ricorrendo sia a mezzi ufficiali e pubblici che al proprio potere di pressione sui giornalisti. L’insieme di questi elementi suggerisce un venir meno dei presupposti per una stampa libera, per la quale – anche in contesti democratici in cui dovrebbe essere quasi scontata – c’è bisogno della collaborazione di tutte le componenti dello Stato, e di quel sistema di “pesi e contrappesi” che, attualmente, sembra essere in profonda difficoltà.

Sofia Chiarelli

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