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Il conflitto dimenticato

Yemen (ancora) in guerra: il governo è sempre più nell’angolo

3 Nov 2021 - Eleonora Ardemagni - Eleonora Ardemagni

Fra mille dubbi, un dato certo esiste: il governo riconosciuto dello Yemen è sempre più nell’angolo. Dopo quasi sette anni di guerra, la risoluzione del conflitto si conferma un rompicapo diplomatico. Non vi è certezza neppure sul numero delle vittime dal 2015: secondo l’Onu, 100 mila yemeniti sarebbero morti per combattimenti e bombardamenti, cifra che salirebbe a 200 mila se si considerano anche cause indirette come crisi alimentare e sanitaria (Covid-19 e colera inclusi).

Mentre il nuovo inviato dell’Onu, lo svedese Hans Grundberg, entra ufficialmente in carica, gli scontri armati si intensificano. Stavolta nelle ultime roccaforti del governo, ovvero i governatorati centro-meridionali di Marib e Shabwa (qui solo nel nord), territori ricchi di petrolio, gas e infrastrutture energetiche: gli ultimi “salvadanai” delle esangui casse governative. Sarà una lunga e intermittente battaglia, ma le forze militari degli huthi (movimento sciita zaidita del nord sostenuto dall’Iran) hanno ormai sfondato, alternando violenza e accordi con tribù locali, nel cuore del potere economico del paese.

Crisi di nessuno?
Gli yemeniti sono “bloccati in una condizione di guerra indefinita” ha dichiarato Grundberg, già ambasciatore dell’Unione europea in Yemen. Le stesse Nazioni Unite –più in generale la diplomazia- “sono a corto di idee” e “stanno perdendo interesse” rispetto a questa crisi, come rimarca lucidamente un recente report dell’International Crisis Group.

Agli occhi del mondo, l’unico conflitto arabo ancora aperto pare condannato a una trascurabile marginalità. Non è così, invece, nei calcoli delle potenze mediorientali (Arabia Saudita, Iran, Emirati Arabi, in misura minore Qatar e Turchia) che anche sulle macerie di un paese fratturato hanno intanto costruito, o difeso, interessi, alleanze e aree d’influenza lungo il crocevia tra Mar Rosso, Golfo di Aden e Oceano Indiano. E ora vogliono continuare a contare nelle dinamiche yemenite, in pace o in guerra.

Conflitto armato e proteste sociali
Nel mese di settembre, gli huthi hanno preso il controllo del governatorato centrale di Al Bayda, in cui sono presenti anche al Qaeda nella Penisola Arabica (Aqap) e la cellula yemenita di “Stato Islamico”: da qui, i miliziani del nord hanno potuto riavviare l’offensiva su Marib. Per coprire le truppe filo-governative, la coalizione militare a guida saudita ha intensificato i bombardamenti sul governatorato di Marib, che ospita oltre un milione di sfollati interni: ma è guerra, anche mediatica, sul reale numero dei miliziani huthi caduti su questo fronte.

L’ingresso degli huthi nella città di Marib (capoluogo omonimo) e la conquista dei giacimenti petroliferi presenti nel governatorato rappresenterebbero un tornante militare, nonché politico, decisivo per gli equilibri di forza yemeniti. Il governo riconosciuto, che ancora si divide tra Aden e Riad per motivi di (in)sicurezza, ne uscirebbe sempre più indebolito e delegittimato, anche in prospettiva di un cessate il fuoco nazionale. Rispetto al 2015, il territorio controllato dal governo è sempre più ridotto e laddove gli huthi hanno dovuto ripiegare, come ad Aden o nell’area occidentale di Mokha vicina allo stretto del Bab el-Mandeb, sono formazioni politico-militari autonome, non i filo-governativi, ad averli sconfitti e ad amministrare ora il territorio. Inoltre, il governo non ha il controllo diretto delle coste dello Yemen: nient’affatto un dettaglio in tema di commercio, proventi e sicurezza marittima. Infatti, la maggior parte dei porti commerciali nonché dei terminal petroliferi e gasiferi del paese sorgono in aree amministrate dagli huthi o da gruppi che si oppongono al movimento sciita zaidita, ma non sostengono il governo.

La moneta yemenita, il riyal, continua a svalutarsi: la crisi economico-sociale è così acuta che proteste popolari si verificano sia in territori dove il governo è ancora presente (come Taiz nonché Sayoun in Hadhramaut), ma anche in aree controllate dal variegato fronte secessionista (come Aden e Mukalla nell’Hadhramaut costiero). Stretto fra l’inefficienza della governance locale e le tensioni con il governo per l’incompiuta condivisione del potere (Accordo di Riad), il secessionista Consiglio di Transizione del Sud ha imposto lo stato di emergenza per sedare le contestazioni persino ad Aden.

Variabili regionali a Marib e Shabwa
Nei combattimenti fra Marib e Shabwa, due variabili, dai potenziali riverberi regionali, vanno tenute d’occhio. La prima è il coinvolgimento indiretto delle principali potenze regionali. A Marib, gli huthi sostenuti dall’Iran si scontrano con soldati e miliziani appoggiati dai sauditi: tra di loro, i simpatizzanti della Fratellanza Musulmana ricevono sostegno dai qatarini; crescono segnali di aiuti militari da parte dei turchi, anche a Shabwa.

La seconda variabile è quella jihadista, legata in Yemen quasi esclusivamente ad Aqap. Da tempo, Aqap vive una fase di crisi e frammentazione interna: dal 2016 non controlla più centri urbani strategici. Ma proprio il fronte di Marib e Shabwa potrebbe offrire ai qaedisti un’occasione per rimobilitarsi e riorganizzarsi. Le ragioni sono tre: le aree in cui si combatte sono assai vicine ai tradizionali “santuari” di Aqap e uno dei leader del gruppo proviene da Shabwa; la presenza degli huthi può rafforzare dinamiche di polarizzazione settaria (sunniti vs sciiti); la presenza di milizie yemenite sostenute dagli Eau, protagoniste di passate campagne di contro-insorgenza contro Aqap proprio in queste zone, potrebbe innescare vendette da parte jihadista.

Tra crisi umanitaria ed economica, l’agenda del nuovo inviato Grundberg è dunque densa di missioni apparentemente impossibili. L’elemento più preoccupante, anche in prospettiva post-conflict, è proprio l’inarrestabile indebolimento delle istituzioni yemenite. E un esecutivo riconosciuto che governa su una porzione sempre più ridotta di territorio.

Foto di copertina EPA/YAHYA ARHAB