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Qatar: nessuna apertura è esclusa per un ritrovato protagonismo nella regione

15 Nov 2021 - Ludovico De Angelis - Ludovico De Angelis

Il Qatar si è affermato come mediatore – talvolta importante, talvolta controverso, talvolta indesiderato – in importanti crisi mediorientali (Siria, Libia, Palestina-Israele, Iraq, Yemen), centro-asiatiche (Afghanistan), africane (Somalia, Sudan, Etiopia), sino a giungere al Marocco e alla questione del Sahara occidentale. Questa politica ha assunto nel tempo il nome di Open-Door policy qatariota.

Uno sconvolgimento per un Paese che sin dal 1971 – anno della sua indipendenza-, aveva optato per una scelta netta: non aggregarsi ai cosiddetti “Stati della Tregua” – i moderni Emirati Arabi Uniti – preferendo la strada dell’indipendenza tout court.

Per oltre vent’anni dall’indipendenza infatti, la politica estera del Paese è stata conservatrice, muovendosi spesso di pari passo con l’Arabia Saudita (con la quale condivide, con importanti differenze, la corrente teologica sunnita wahabita). Un imperativo principale, quello della sicurezza, ha guidato le scelte di Doha, essendo questo un Paese dalle dimensioni ridotte, con delle risorse energetiche allora praticamente inutilizzate, senza esercito e schiacciato geograficamente e politicamente tra l’Arabia Saudita e l’Iran.

Si possono perciò distinguere a grandi linee tre epoche nella storia della politica estera qatariota. L’epoca conservatrice (1971-1995); il periodo dello slancio di auto-affermazione, che va dall’anno dell’arrivo di Sheikh Hamad bin Khalifa Al-thani fino alla fine del suo regno (1995-2013); il momento del riconoscimento, che va dal 2013 sino ai giorni nostri.

La trasformazione del Paese
Dopo aver preso il potere da suo padre con un colpo di Stato mentre questi era in viaggio fuori del Paese, Hamad bin Khalifa al-Thani ha iniziato un cammino di modernizzazione e liberalizzazione del paese, favorendo cautamente un succedaneo di democrazia sui generis in un contesto monarchico fortemente centralizzato.

La sua decisione più nota fu presa nel 1995, con la fondazione del canale al-Jazeera (l’Isola), strumento di punta del soft power qatariota; quella più utile, invece, fu quella di investire massivamente nella produzione di gas naturale liquefatto, una ricchezza conosciuta ma sino ad allora ancora poco utilizzata; quella più arguta fu, al contrario del Bahrein, quella di emanciparsi dal vicino saudita per le questioni afferenti la sfera securitaria, intraprendendo un inesorabile percorso di avvicinamento agli Stati Uniti sin dal 1992, tramite la firma del primo Defense Cooperation Agreement (Dca).

Quest’ultimo accordo, che ha fornito un quadro normativo di stazionamento delle truppe americane in Qatar, è stato aggiornato (2013) e recentemente rafforzato da ulteriori Memorandum of Understanding (2017, per il controterrorismo; 2019, per l’ampliamento della partnership militare), e suggellato simbolicamente dai nuovi investimenti nella base di al-Udeid (la quale ospita il Comando Generale all’estero della Centcom), da quelli nell’impianto di As-Saliyah, e da quelli nel porto di Hamad.

Durante questo periodo l’indirizzo di politica estera è stato formalmente sanzionato dalla riforma costituzionale del 2003: all’articolo 7 viene indicato che il Paese si prefigge di mantenere “international peace and security by encouraging the settlement of international disputes by peaceful means […]”. Tuttavia, Doha è stata accusata di soffiare sul fuoco della Primavera araba andando contro i regimi della conservazione e stabilità – Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto -, e supportando diversi gruppi di opposizione islamisti anche, ma non esclusivamente, tramite l’utilizzo sobillatorio del canale al-Jazeera (Egitto, Tunisia, Libia, Siria).

Minaccia o partner affidabile?
La morte del Mullah Omar nell’aprile del 2013 ha preceduto di poco l’apertura di un ufficio politico talebano a Doha (giugno 2013), in una suggestiva sequenza temporale. Non è il primo ufficio politico di un movimento dibattuto ad aprire nel Paese. Infatti, anche l’élite politica di Hamas guidata da Ismael Haniyeh e Khalid Meshaal vive nel paese da numerosi anni, cementando un legame tra l’organizzazione islamista e Doha, la cui recente decisione di donare 500 milioni a Gaza rappresenta solo l’ultimo tassello di un percorso lungamente consolidato.

Inoltre, per ciò che riguarda il movimento islamista trans-nazionale della Fratellanza Musulmana, l’emblematica presenza nel paese di Yusuf al-Qaradawi – non solo anziano teologo della Fratellanza e conduttore del famoso programma “la Shari’a e la Vita” (al-shari’a wa al-hayat) su al-Jazeera, ma anche leader della “Unione Internazionale degli Ulema Musulmani”, un veicolo dell’influenza politica e religiosa qatarina – è solo l’aspetto maggiormente visibile del sostegno che Doha fornisce al movimento da anni.

Sebbene firmataria degli accordi di Riad (2013), ove i membri del Gcc si impegnavano, tra l’altro, a non supportare movimenti e “atti sediziosi” nei Paesi limitrofi, il Qatar ha perseguito per anni una politica di consolidamento delle relazioni con queste formazioni “eterodosse”.

Pro e contro della strategia di Doha
Ciononostante, sin dall’inizio del blocco imposto dagli altri Paesi del Golfo, Doha avrebbe lentamente ricalibrato la propria politica in merito alla Fratellanza, modificando parzialmente, ad esempio, la linea editoriale di al-Jazeera. Parallelamente, il Qatar mantiene poco visibili ma costanti relazioni con Israele, ha manifestato più volte istanze di apertura verso l’Iran, ed è stato lodato dagli Stati Uniti, dalla Francia, dal Regno Unito e dalla Spagna per il suo ruolo nella crisi afghana. Insomma, Doha non si preclude ideologicamente nessuna apertura poiché funzionale al ritagliarsi un ruolo nell’area.

Secondo alcuni, la trasversalità qatariota rappresenterebbe un esempio virtuoso, il quale eviterebbe ai governi poco inclini al dialogo “pubblico” con questi movimenti di mantenere dei rapporti attivi per risolvere e discutere delle crisi regionali.

Secondo altri, caldeggiando le attività di questi movimenti “eterodossi” e supportandoli a tal punto da favorire l’instabilità regionale, il Qatar rappresenterebbe un elemento di perturbazione istigando rivolte interne ai paesi e minacciando così lo status quo. La minaccia si estenderebbe sino ai paesi europei, come la polemica sugli investimenti qatarioti nelle banlieue parigine di alcuni anni fa ha dimostrato.

Entrambe le visioni sembrerebbero però corrette. Infatti, sarà proprio l’intensità dell’azione qatariota e la natura stessa del rapporto che Doha vorrà mantenere con questi gruppi, nonché del supporto che vorrà concedergli, a cambiare di volta in volta la loro posizione di forza, tramutandola in debolezza (o viceversa). A seconda delle circostanze, il ruolo di Doha può rappresentare un’opportunità oppure un rischio. Per questo, date le circostanze, una politica di critical engagement costruttivo rappresenta la soluzione migliore per raccogliere i dividendi derivanti dalla sua azione.

Foto di copertina EPA/Stringer