In Romania la quarta ondata dà il colpo di grazia al governo
Il governo di Florin Cîțu, esecutivo di minoranza in Romania ormai da mesi dopo l’uscita dalla coalizione dei liberali di Usr-Plus in seguito al licenziamento di uno dei ministri del gruppo, ha perso la sua ultima battaglia, colpito e affondato da una mozione di sfiducia votata da ben 281 parlamentari (la soglia minima era 234).
Tre gli ingredienti della pozione politica mortale per il partito di Cîțu, il Partito Nazionale Liberale (Pnl): gli avversari a destra (soprattutto Aur), gli amici di una volta (cioè Usr-Plus) e la pandemia di Covid-19. Tra le maggiori accuse al governo di minoranza, in effetti, quella più difficile da controbattere è stata quella di aver gestito in senso fallimentare l’emergenza sanitaria. Il Paese, infatti, ha una delle situazioni a tinte più fosche di tutta l’Unione europea, con solo il 27% dei cittadini vaccinati.
Non vale nemmeno la scusa delle difficili condizioni economiche dello Stato, perché il piccolo Portogallo, che pure è molto spesso tra i sorvegliati speciali nelle rendicontazioni europee, è riuscito invece ad appiattire completamente la curva dei contagi vaccinando con seconda dose praticamente tutti i lusitani. Oggi, mentre i contagi toccavano un nuovo (tragico) record di 15 mila nuovi pazienti, il Parlamento rumeno ha accusato l’esecutivo di Cîțu di aver condotto il Paese al baratro attuale: all’ignominioso sesto posto nel mondo per contagi e a una quarta ondata che ha reso la Romania il secondo paese del blocco euroasiatico per nuovi casi dopo la Russia.
Un divorzio incauto
Va detto che la situazione pandemica delle ultime settimane ha dato semmai il colpo di grazia a un governo zoppicante già da diverso tempo. I primi acciacchi seri il mese scorso, quando il ministro della Giustizia Stelian Ion era stato “defenestrato” dal governo per una questione di conti: un grosso finanziamento europeo da 10 miliardi di euro per lo sviluppo delle zone rurali, bloccato per il parere ostile proprio del titolare del dicastero. Ion è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso e causato il divorzio tra Pnl e Usr-Plus, dopo un’altra dimissione assai discussa, quella del ministro della Salute Vlad Voiculescu.
Due bastonate ad alleati tanto disprezzati (oggi Cîțu da detto di aver dovuto sopportare “un’accozzaglia di incompetenti” riferendosi ai ministri del “bipolare” partito Usr) quanto vitali. Non tanto per il Pnl, visto che Usr da subito si è detto disponibile a creare una nuova coalizione di maggioranza con i liberali; piuttosto per Cîțu stesso, visto che gli stessi ex alleati hanno sottolineato che l’accordo sarà sì possibile, ma solo con un altro primo ministro.
Così il premier di destra ma europeista potrebbe essersi scavato la fossa da solo, litigando con quei 25 parlamentari che uniti ai suoi 41 gli avevano permesso, nel dicembre 2020, di sbarrare la strada a un ritorno dei socialdemocratici al potere a Bucarest.
Oro alla riscossa
L’altra spinta che ha fatto cadere Cîțu è l’insolito fronte tra gli ex alleati e gli avversari di estrema destra di Aur (letteralmente “Oro” in rumeno). Un partito che è piuttosto un amalgama di istanze populiste, xenofobe, misogine, omo-transfobiche e anche un pizzico di antisemitismo, tra ammiccamenti al neofascismo e neonazismo e una nostalgica fascinazione per l’ex dittatore comunista della Romania, Nicolae Ceaușescu.
Questo intruglio di intolleranza ha però un ingrediente segreto che manca alle altre forze politiche: parla chiaro alla pancia di un Paese sfiduciato. Alle scorse elezioni di dicembre ha saputo guadagnarsi il suo 9 % e i suoi posti in Parlamento andando a braccetto con il partito più grande della Romania, quello dell’astensione: oltre il 70 % dei romeni non si è recato alle urne, in larga parte a causa della sfiducia nei confronti del presidente filoeuropeo Klaus Iohannis (fresco, nei giorni scorsi, di Premio Carlo Magno per l’integrazione Ue) ma più in generale di un sistema politico considerato tra i più corrotti in Europa.
La stessa crisi tra Usr e Pnl si gioca tra la spaccatura profonda tra due anime di un Paese: le città (e in generale le giovani generazioni) che aspirano a uno status pienamente europeo, e le zone rurali (dove si concentra la popolazione anziana). C’è da chiedersi se Aur, vicino alla Chiesa ortodossa, riuscirà passato il “voto emozionale” a rimanere unito e coeso con così tante anime diverse al suo interno.
E ora che si fa?
Almeno per ora, tuttavia, appare improbabile lo scenario delle elezioni anticipate. Lo stesso Usr ha subito specificato di essere pronto a un nuovo governo con il Pnl (ma senza Cîțu). Inoltre, prima di giocare la carta delle elezioni dovranno vagliare (ed eventualmente bocciare) due proposte per formare un nuovo governo da parte di Klaus Iohannis.
Una soluzione potrebbe essere appunto quella ventilata da Usr, con un accordo tripartito tra questi, il partito Udmr (rappresentante il gruppo etnico ungherese) e Pnl; un piano che permetterebbe di ricostruire una coalizione di maggioranza robusta (almeno del 57%). Per ora almeno nessuno sembra voler portare i cittadini alle urne. Non con una guerra contro la pandemia ancora da vincere.
Foto di copertina EPA/Robert Ghement