Cile: giunto a fine mandato, il presidente Piñera rischia l’impeachment
L’uragano mediatico scatenato dalla pubblicazione dei primi Pandora Papers da giorni ormai sta mietendo vittime illustri in tutto il mondo. La più massiccia inchiesta giornalistica mai realizzata in tema di evasione e paradisi fiscali ha portato, infatti, il Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi (Icij) a mettere le mani su oltre 11 milioni di documenti fiscali riservati riguardanti movimenti di denaro e proprietà off-shore che hanno messo nel mirino, tra i tanti, più di 300 figure politiche di alto livello (tra cui anche capi di Stato e di governo) in oltre 90 Paesi.
Già dalle prime pubblicazioni sembra che l’inchiesta sia destinata a sovrastare di gran lunga (per eco mediatica e per mole di fonti) il terremoto dei Panama Papers di cinque anni fa e ancora una volta – e forse più che in passato – risulta già chiaro come a pagare il prezzo più alto dello scandalo saranno l’America Latina e i Caraibi. Tre presidenti in carica e 11 ex presidenti; 90 politici di altissimo profili e persino il governatore di una Banca centrale.
Questo è il bilancio, ancora sommario, dei profili politici latinoamericani più pesanti che, secondo quanto rivelato da El País, avrebbero usufruito largamente di paradisi fiscali per nascondere le proprie fortune alla tassazione dei Paesi di origine. Inoltre, dei 35 leader politici, attuali e passati, che figurano nei documenti, ben 14 proverrebbero da questa regione.
Santiago trema
Tra i nomi più importanti presenti nei fascicoli risulta anche quello di Sebastian Piñera, dal 2018 per la seconda volta alla guida del Cile. Piñera deve ora difendersi da accuse pesantissime che coinvolgono anche alcuni esponenti della sua famiglia. Il tutto in un momento delicato per il Paese intento a completare la scrittura di una nuova Costituzione democratica, due anni dopo le proteste di piazza – ricordate dalle manifestazioni di questi giorni – che portarono al referendum per la stesura di una Carta post-Pinochet.
I file pubblicati rivelano, infatti, diversi movimenti off-shore riconducibili a due società di proprietà della famiglia del presidente cileno con sede nelle Isole Vergini Britanniche. Tuttavia, ad aver attirato maggiormente l’attenzione degli investigatori risulta essere un particolare affare: nel 2010 Piñera avrebbe ceduto ad un amico di infanzia (Carlos Alberto Délano) la sua quota dell’impresa mineraria Minera Dominga per la cifra di 152 milioni di dollari (attraverso una delle due compagnie off-shore) ma condizionando l’affare alla mancata istituzione di provvedimenti che avessero impedito “irrevocabilmente” la nascita di un impianto minerario, come ad esempio l’istituzione di aree ambientali protette nel raggio operativo della società.
Il potere di prendere un tale provvedimento in Cile è del governo, guidato allora proprio da Piñera che, nonostante le pressioni di gruppi ambientalisti per la creazione un “santuario” nell’area in questione, non si sarebbe mosso in alcun modo, bloccando invece la costruzione di una centrale termoelettrica nei pressi del sito minerario proposto.
Ad oggi non è chiaro se il presidente abbia effettivamente incassato la cifra pattuita – e poco importa se il progetto per l’apertura della miniera risulti ancora in attesa di approvazione -; un attimo dopo la pubblicazione del dossier, Piñera si è ritrovato nell’occhio del ciclone, assediato da stampa e partiti di opposizione. Secondo Nicolas Noguera, uomo di fiducia del presidente, incaricato di gestire gli investimenti di famiglia, Piñera non avrebbe preso parte ad alcuna questione relativa alla vendita dell’impresa mineraria e lo stesso presidente cileno ha provato a difendersi dichiarandosi totalmente “all’oscuro dell’operazione finanziaria”.
Le opposizioni passano al contrattacco
A Santiago, tuttavia, l’ipotesi che il presidente non fosse a conoscenza di un affare multimilionario concluso con il suo migliore amico non ha trovato molto seguito. Ulteriori approfondimenti avrebbero portato i giornalisti di LaBot – una delle due testate cilene a prendere parte alle indagini dei Pandora Papers – a scoprire che nella documentazione circa la compravendita della società mineraria, presentata nel 2017 di fronte al Tribunale di Garanzia che indagava sull’affare, non ci sarebbe stata alcuna traccia della discussa clausola che mette in luce oggi il conflitto di interessi del presidente. Secondo il periodico cileno, dunque, all’epoca ai giudici sarebbe stata nascosta un’informazione essenziale che avrebbe potuto portare il giudizio ad un esito diverso da quello dell’assoluzione.
Sarebbe proprio quest’aura di mistero, unita alla scarsa trasparenza del presidente e del suo team sull’intera questione, che avrebbe alla fine convinto la magistratura a mettere sotto inchiesta Piñera per corruzione e la Camera dei Deputati (guidata dalle opposizioni di sinistra) a presentare, la scorsa settimana, la mozione di impeachment, dietro la spinta di un ventaglio ampio di forze politiche tra cui il Partito socialista (Ps), la coalizione Frente Amplio (Fa), il Partito democratico (Dc), il Partito per la democrazia (Ppd) e la Federazione regionalista verde sociale (Frvs). La proposta avrà bisogno di almeno 78 voti favorevoli per poter passare al Senato, dove è richiesta invece la maggioranza dei tre quarti.
Il tutto a poco più di un mese dalle elezioni presidenziali del 21 novembre (a cui Piñera non parteciperà) e in un clima politico e istituzionale molto delicato che vede, oltre al nuovo processo costituente in corso, l’esplosione di nuovi focolai di protesta nel sud del Paese ad opera delle comunità indigene che hanno portato lo stesso presidente a decretare lo Stato di emergenza nella regione. Forse uno degli ultimi atti di Sebastian Piñera alla guida del Cile.
Foto di copertina EPA/Alberto Valdes