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Le piazze e le violenze

Due anni dopo la rivoluzione, in Libano torna la guerriglia settaria

18 Ott 2021 - Giordano Stabile - Giordano Stabile

BEIRUT Due anni per passare dalla rivoluzione contro il settarismo alla guerriglia settaria nel centro di Beirut. Il tempo in Libano sembra scorrere in senso circolare, un eterno ritorno al peccato originale. E cioè la costruzione di uno Stato soltanto in apparenza laico, basato sul diritto francese, ma nei fatti un sistema consociativo che deve, finché può, tenere a bada le spinte centrifughe e distruttive con la “spartizione della torta”. Governi di larga coalizione dove ogni gruppo religioso – ce ne sono diciannove, dodici cristiani – ha i suoi rappresentati e suoi ministri e dove le risorse pubbliche vengono spolpate in maniera sistematica. Tutti partecipano e nessuno ha interesse a denunciare i rivali.

Lo Stato settario è nato nel 1990 a Taif, in Arabia Saudita, con gli accordi che misero fine a 15 anni di guerra civile, 120 mila morti su un Paese che allora contava tre milioni di abitanti. I leader settari, come dice uno dei pochi deputati indipendenti, Fuad Makhzoumi, “si sono tolti la mimetica e hanno indossato giacca e cravatta”. Hanno smesso di spararsi e hanno cominciato ad arricchirsi. Dopo trent’anni, nell’ottobre del 2019, lo “schema Ponzi” che reggeva il finanziamento dello Stato, con un deficit annuo arrivato all’11% del Pil, è saltato e a pagare sono stati i cittadini, che hanno visto tutti i loro risparmi “congelati” nelle banche, e poi evaporati, e hanno capito il grande inganno dei leader religioso-politici gli “zuama”, come li chiamano in arabo.

Per la Banca mondiale, la crisi economica libanese è “la peggiore al mondo da 150 anni”. La “saura”, la rivoluzione del 17 ottobre, è però fallita. Non è stata repressa nel sangue come in Iraq. Ma soffocata lentamente dal muro di gomma del “nizam”, il sistema. Con un solo fatto imprevedibile che potrebbe scompaginare tutto. Nel bene e nel male. E cioè l’esplosione al porto del 4 agosto 2020. Un incidente, con tutta probabilità. Ma un incidente arrivato alla fine di una catena spaventosa di negligenze, corruzione, affari opachi, traffici inconfessabili. Scoperchiare le cause e le responsabilità significa scoperchiare il “sistema”. A volerlo fare è il giudice Tarek Bitar.

Un Falcone a Beirut
Quarantasette anni, si è fatto conoscere nel caso della piccola Ella Tannous, vittima della malasanità. Per la prima volta in Libano è riuscito a far condannare i dirigenti dell’ospedale e i medici che in una catena di errori avevano portato alla morte della bambina. Bitar ha adesso una fama di inflessibile, senza legami con i poteri forti del Paese. Per questo l’ex ministra della Giustizia Marie Claude Najm, un’altra figura indipendente, l’aveva scelto per la più delicata delle inchieste, quella sull’esplosione al porto. Ma per Hezbollah e Amal il giudice è legato al potere cristiano e “sceglie i suoi i bersagli”, cioè i loro uomini.

Il “Falcone libanese”, come lo chiamano qui nel timore che salti in aria come già il premier Rafik Hariri nel 2005, ha lanciato una bomba contro l’ex ministro delle Finanze Ali Hassan Khalil, eminenza grigia e braccio destro dello speaker del Parlamento, lo sciita Nabih Berri. Lo accusa di “omicidio, incendio doloso, vandalismo a fini di lucro”.

Il governo resiste
Accuse gravissime che fanno presagire uno scontro all’ultimo sangue. Le minacce sono sempre più esplicite e militanti e giornali sciiti ormai dicono che bisogna “fare di tutto per fermarlo”. Il segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah ha attaccato Bitar in un discorso in diretta tivù e lo ha bollato come “politicizzato”. Il Partito di Dio e l’altro movimento sciita Amal, e gli alleati cristiano-ortodossi di Marada, hanno chiesto al governo di bloccare il giudice e di ripristinare l’immunità parlamentare.

Il governo guidato dal sunnita Najib Mikati si è spaccato. Gli sciiti temono soprattutto le indagini sul trio di uomini di affari russo-siriani che ha portato il carico da duemila tonnellate di nitrato di ammonio nel porto, poi esplose come una mini bomba atomica da un chilotone di potenza, attraverso la misteriosa società Savaro Limited. Hanno provato a fermare il giudice con tre ricorsi alla magistratura, tutti falliti. Sono passati alle minacce sempre più esplicite, anche su giornali come Akhbar, allusioni a rappresaglie fisiche.

La marcia sul Palazzo di Giustizia
Bitar non ha ceduto, la magistratura neppure. Hezbollah e Amal hanno allora organizzato una “marcia” sul Palazzo di Giustizia. Una colonna di militanti, non armati, ma intruppati e compatti. La marcia si è scontrata però con un tabù. Militanti musulmani all’interno di un quartiere cristiano. La reazione delle Forces libanaises, le “falangi” della guerra civile, è stata brutale. Cecchini hanno ucciso cinque militanti sciiti, è scoppiata una battaglia di tre ore a colpi di kalashnikov e lanciarazzi. Per gli analisti dei quotidiani cristiani i falangisti di Samir Geagea sono caduti nella “trappola” tesa da Hezbollah, che era consapevole di rompere un tabù e li ha provocati portando i suoi militanti al confine della loro roccaforte di Ain el-Remmeneh.

È un riflesso istintivo, che mette in risalto un altro enorme problema del Libano. Tutte le milizie, anche cristiane e druse, sono armate fino ai denti. Lo si era visto nel 2008, quando Hezbollah tentò in entrare nelle valli dello Chouf druso e venne respinto a colpi di lanciarazzi. Allora gli sciiti evitarono di sfidare i cristiani falangisti e si mantennero a distanza dei quartieri cristiani di Beirut. Questa volta, pur di fermare il giudice Bitar, sono pronti ad andare oltre.

Foto di copertina EPA/NABIL MOUNZER