Prove di dialogo tra Madrid e Barcellona
Nel febbraio del 2020 si tenne la prima riunione del tavolo di dialogo tra il governo spagnolo e quello catalano. Fu il primo tentativo – fortemente voluto dall’esecutivo di sinistra guidato da Pedro Sánchez – di ricucire le relazioni tra Barcellona e Madrid dopo quasi un decennio di tensioni culminate con i fatti dell’ottobre del 2017. Non ci furono grandi progressi e la seconda riunione fu posticipata a data da destinarsi per lo scoppio della pandemia e la convocazione di elezioni anticipate catalane. Da allora, però, sono cambiate parecchie cose.
Lo scorso mese di maggio, infatti, si è formato un nuovo governo a Barcellona guidato, per la prima volta, da Esquerra Republicana de Catalunya (Erc). Per quanto si tratti di un esecutivo indipendentista di coalizione come nell’ultimo lustro – che vede Erc affiancata da Junts per Catalunya (JxCat), il partito di Carles Puigdemont, arroccato sempre più su posizioni intransigenti e oltranziste –, la presidenza non la detiene più un nazionalista identitario come Quim Torra, ma il più pragmatico Pere Aragonès.
Nell’ultimo biennio ha dato segnali sempre più chiari di essere favorevole al dialogo con Madrid, sostenendo anche il governo formato dal Psoe e Unidas Podemos nelle Cortes spagnole.
Oltre le ostilità
A giugno, poi, il premier socialista ha concesso l’indulto ai nove dirigenti politici indipendentisti condannati a lunghe pene di carcere nell’autunno del 2019: una decisione coraggiosa e non facile per Sánchez, sottoposto a una pressione notevole delle destre spagnole che, rinvigorite dalla vittoria nelle regionali di Madrid in primavera, hanno accusato il leader socialista di svendere la patria ai separatisti per mantenersi al governo. Il coraggio, però, sembra aver premiato il leader socialista. La strada è ancora lunga e irta di ostacoli, ma la seconda riunione del tavolo di dialogo tra i due governi, celebratasi lo scorso 15 settembre a Barcellona, è un segnale indubbiamente positivo.
Dopo settimane di tensioni – dovute anche alla proposta di un importante investimento statale per l’ampliamento dell’aeroporto di Barcellona, saltata all’ultimo per le divisioni nel governo catalano – Sánchez si è riunito a lungo con Aragonès e le due delegazioni hanno stabilito un calendario di lavori per i prossimi mesi.
Le posizioni sono ancora molto distanti: Aragonès ha ripetuto che l’obiettivo è l’amnistia – che implicherebbe una soluzione anche per Puigdemont e gli altri dirigenti indipendentisti rifugiatisi all’estero – e un referendum di autodeterminazione, mentre Sánchez ha ribadito l’impossibilità di prendere in considerazione queste possibilità, rilanciando una proposta fatta di maggiori investimenti e competenze autonomiche. Però, a differenza del passato, entrambi i presidenti hanno sottolineato la volontà condivisa di portare avanti un processo di dialogo per tutto il tempo necessario. “Senza fretta, senza pausa e senza scadenze”, ha affermato Sánchez, “raggiungeremo una soluzione accordata”.
In sintesi, quello che è cambiato è il tono e quel che rimarrà è la fotografia dell’incontro cordiale tra il presidente spagnolo e quello catalano. Se si pensa alle immagini delle strade di Barcellona di solo due anni fa, incendiate da proteste che bloccarono perfino l’aeroporto, e alla ripetuta negativa dei dirigenti catalani di riunirsi con il governo spagnolo, il cambiamento è sostanziale, non solo di facciata.
Amici per forza
Il punto è che Sánchez e Aragonès hanno bisogno l’uno dell’altro: la loro debolezza (politica) può essere la loro forza. Il primo governa in minoranza a Madrid e i voti di Erc sono la chiave per non andare sotto in Parlamento. Il secondo tenta di staccarsi dall’abbraccio mortale di JxCat, cercando di definire una politica autonoma che chiuda il decennio segnato dal sogno infranto e impossibile di una repubblica catalana indipendente.
Il che non è facile: non solo per i ricatti costanti del partito di Puigdemont – che ha deciso di non partecipare al tavolo di dialogo – e la pressione dei settori più radicalizzati del movimento indipendentista – Aragonès è stato insultato nella manifestazione dello scorso 11 settembre in occasione della Diada –, ma anche perché il governo regionale dipende dai voti degli anticapitalisti della Candidatura d’Unitat Popular (Cup) che vedono come fumo negli occhi qualunque dialogo con Madrid. Sánchez e Aragonès hanno preso insomma tempo con l’obiettivo di portare a casa in futuro un risultato spendibile per le proprie parrocchie.
Un nuovo statuto di autonomia rafforzato con maggiori competenze, soprattutto nel campo linguistico, votato poi dalla cittadinanza in un referendum? Potrebbe essere la quadra del cerchio. C’è margine di manovra fino all’inizio del 2023 quando Aragonès dovrà sottoporsi a una mozione di fiducia accordata con la CUP e la legislatura spagnola volgerà al termine.
Galeotto fu il Covid
La questione, in ogni caso, è che, tanto a Madrid come a Barcellona, chi è al governo ha capito bene che la pandemia ha posto altre priorità: completare la campagna di vaccinazione – il 75% della popolazione spagnola ha già completato il ciclo vaccinale –, far ripartire l’economia – il PIL spagnolo è crollato dell’11% nel 2020 –, utilizzare al meglio i fondi del Next Generation EU – il paese iberico ha già ricevuto ad agosto i primi 9 miliardi dei 140 che gli sono stati assegnati da Bruxelles – ed evitare i contraccolpi di una ripresa che potrebbe lasciare indietro i ceti meno abbienti e alcuni settori in concreto. L’aumento delle bollette di luce e gas, ad esempio, è dall’inizio dell’estate un grattacapo preoccupante per Sánchez, mentre in Catalogna le restrizioni decretate dal governo regionale hanno messo sul piede di guerra il settore della ristorazione.
In tutto questo, il sogno dell’indipendenza, a cui crede comunque ancora una parte importante, ma non maggioritaria, della popolazione catalana, ha fatto il suo tempo. Al di là della retorica, anche ERC lo ha capito, in realtà. Il suo progetto è quello di convertirsi nel partito egemonico a livello regionale, seguendo il modello dello Scottish National Party: buona gestione dell’amministrazione e retorica indipendentista senza strappi. Non a caso, recentemente, Aragonès ha parlato di un possibile referendum entro il 2030: qualcosa di ben diverso comparato con l’unilateralità immediata difesa negli anni scorsi. Sono piccoli passi che segnano un cammino.
Sánchez e Aragonès sanno in poche parole che una soluzione politica al conflitto è possibile. E che è beneficiosa per entrambi. Vediamo, però, se ne sono capaci. E se la correlazione di forze, in tempi liquidi e con le destre, sia a Madrid che a Barcellona, sulle barricate, gli sarà favorevole.
Foto di copertina EPA/Quique Garcia