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L'11 settembre 20 anni dopo

Perché le Torri Gemelle non furono un’altra Pearl Harbor

10 Set 2021 - Riccardo Alcaro - Riccardo Alcaro
Chiamati a dare una valutazione istantanea degli attacchi dell’11 settembre 2001 a New York e Washington – senza contare l’aereo che cadde in Pennsylvania, apparentemente grazie all’intervento dei passeggeri che si rivoltarono contro i dirottatori –, la stragrande maggioranza dei commentatori trasse un immediato paragone: l’attacco a sorpresa delle forze del Giappone imperiale contro la flotta americana del Pacifico, ancorata nella baia di Pearl Harbor, alle Hawaii, il 7 dicembre 1941.
Due erano le ragioni che sostenevano il paragone. La prima affondava le radici nell’analogia storica e l’impatto simbolico. L’attacco di Pearl Harbour – in quello che, nelle parole dell’allora presidente Franklin D. Roosevelt, sarebbe passato alla storia come il “giorno dell’infamia” – è il precedente storico più vicino all’11 settembre in cui gli Stati Uniti sono stati attaccati sul suolo nazionale.

Oltre allo shock per l’attacco a sorpresa, il considerevole costo in vite umane – Pearl Harbor causò oltre 2 mila vittime, l’11 settembre quasi 3 mila – rafforza il paragone storico: così come ogni americano allora vivente avrebbe ricordato cosa stava facendo nel momento in cui la notizia dell’attacco di Pearl Harbour si diffuse, lo stesso si può dire di ogni americano (ma non solo) che assistette sugli schermi televisivi al crollo in diretta delle Torri Gemelle, gli edifici più conosciuti dell’iconico skyline di New York e il simbolo della potenza finanziaria dell’America. 

La guerra globale al terrore
La seconda ragione alla base del paragone riguardava invece l’impatto sulla politica interna e conseguentemente internazionale degli Stati Uniti. Pearl Harbor portò gli Usa a entrare in guerra contro il Giappone e subito dopo contro Germania e Italia, alla vittoria contro le potenze fasciste e, soprattutto, a un radicale cambio di approccio in politica estera. La Seconda guerra mondiale, al contrario della prima, segnò l’ingresso definitivo dell’America sul palcoscenico centrale della politica internazionale. Da quel momento gli Usa avrebbero abbracciato il ruolo di grande potenza egemone dell’Occidente e di garante di un ordine internazionale basato sui loro interessi ma anche sui loro valori, sul loro regime politico e modello di sviluppo economico.

È vero che l’opinione pubblica Usa sostenne questo ruolo più per l’insorgere della competizione con l’Unione Sovietica nel dopoguerra che come risultato dell’attacco giapponese. Tuttavia, senza dubbio lo shock di Pearl Harbor, l’impegno nel conflitto mondiale e la responsabilità/necessità di favorire la ricostruzione post-conflitto in modo da garantire la sicurezza e la prosperità degli Stati Uniti crearono le condizioni perché l’opinione pubblica accettasse il compito, presentato dalle élites di entrambi i partiti, di impegnarsi nella politica mondiale ben più di quanto si fosse fatto prima del 1941.

L’11 settembre, sostennero in molti, avrebbe risolto le incertezze dell’opinione pubblica circa il ruolo degli Usa che si erano affacciate nel decennio successivo alla Guerra fredda presentando la necessità di far fronte a un nuovo nemico, non potente come l’Urss ma non per questo meno insidioso: il terrorismo internazionale di matrice islamicaL’intervento in Afghanistan nell’ottobre 2001 contro i talebani, che avevano garantito appoggio e rifugio a chi aveva perpetrato gli attacchi, l’al-Qaeda di Osama bin Laden, fu accompagnato da grande favore popolare. Così pure l’invasione dell’Iraq nemmeno due anni dopo, grazie anche alla sottile manipolazione dell’informazione con cui l’amministrazione di George W. Bush insistette sugli (inesistenti) legami tra al-Qaeda e l’allora dittatore iracheno Saddam Hussein. 

Afghanistan e Iraq erano solo i fronti più importanti di un conflitto che gli Usa intendevano portare ovunque si presentasse la minaccia terroristica. Non a caso Bush coniò il termine Guerra Globale al Terrore e ne fece uno dei capisaldi della sua politica estera. L’opinione pubblica, si pensò, avrebbe sostenuto lo sforzo dell’amministrazione così come aveva appoggiato l’intervento nella Seconda guerra mondiale prima e poi la lunga Guerra fredda contro il blocco comunista.

Le diverse strategie
Vent’anni dopo l’11 settembre possiamo dare una valutazione obiettiva della legittimità del paragone con Pearl Harbor. Certamente si tratta di due shock che resteranno per sempre impressi nella memoria collettiva. Ma l’11 settembre non ha prodotto un contesto politico interno “permissivo” per l’impegno internazionale degli Usa paragonabile a Pearl Harbor. In parte ciò va ascritto al modo in cui le élites di governo hanno gestito il potenziale di consenso pubblico. Negli anni ‘40 e primi ’50 le amministrazioni di Roosevelt e del suo successore, Harry S. Truman, impegnarono gli Usa in una guerra contro le dittature fasciste e in una competizione col blocco sovietico le cui ragioni l’opinione pubblica poté non solo comprendere ma anche condividere, almeno in buona parte. Furono anche sagge non solo nello scegliere gli obiettivi – la distruzione militare della minaccia fascista e il contenimento dell’influenza sovietica – ma anche dei mezzi: gli Stati Uniti prevalsero su fascismo e comunismo grazie alla costruzione di ampie coalizioni e alleanze internazionali

L’amministrazione Bush propose invece obiettivi cangianti. La caccia ad al-Qaeda in Afghanistan e la presunta minaccia posta dalle (di nuovo, inesistenti) armi di distruzione di massa di Saddam si fusero nel tempo con un’indefinita agenda di promozione della democrazia che metteva insieme lotta al terrorismo, contrasto alle dittature (ma solo quelle nemiche degli Usa) e nation-building su larga scala e in Paesi di cui gli Usa avevano poca cognizione e in cui dopotutto avevano in gioco interessi meno che vitali (al contrario dell’Europa o dell’Asia orientale, centrali sia durante la Seconda guerra mondiale che la Guerra fredda). 

All’indeterminatezza e ambivalenza degli obiettivi – sotto i quali molti hanno semplicemente visto un desiderio di consolidare l’egemonia mondiale degli Usa – si è accompagnata l’inadeguatezza dei mezzi: un’eccessiva dipendenza dallo strumento militare, un’incapacità di sviluppare strategie diplomatiche con paesi non allineati o rivali (come Russia, Cina, Iran) e l’inestirpabile tendenza ad agire unilateralmente.

L’11 settembre non ha così portato in nessun modo al consolidarsi di un consenso pubblico trasversale alla Guerra Globale al Terrore – tra partiti e tra élites ed opinione pubblica – paragonabile a quello che sostenne la politica Usa durante la Seconda guerra mondiale e la Guerra fredda, e che ebbe le sue origini nell’attacco di Pearl Harbor. 

Un fallimento di politica interna
L’ambivalenza soggiacente ai fini, l’inadeguatezza dei mezzi e i risultati fallimentari – l’Iraq resta un paese diviso, insicuro e debole, l’Afghanistan è tornato nelle mani dei talebani e la minaccia terroristica è oggi molto più diffusa, radicata ed estesa che nel 2001 – hanno reso la Guerra Globale al Terrore un colossale fallimento di politica interna, prima ancora che di politica estera. È precisamente sul rigetto della Guerra Globale al Terrore e dell’interventismo, liberale o meno, ad essa intrinseco che i presidenti successivi a Bush – con eccessiva prudenza Barack Obama e con estenuante confusione Donald Trump – hanno provato a ricostruire un consenso trasversale interno alla politica estera Usa.

In questo senso, Joe Biden ha fatto quello che Barack Obama e Donald Trump avevano promesso: cambiare rotta alla fallimentare politica estera USA post-11 settembre. Biden potrebbe esserci giocato le chance di conferma nel 2024, perché gli Usa mal sopportano la sconfitta. Ma allo stesso tempo, accettando la sconfitta in Afghanistan, potrebbe aver assicurato ai suoi successori la possibilità di ricreare consenso interno a una politica estera basata più su interessi strategici sistemici – come la competizione con la Cina o la lotta al riscaldamento climatico – e meno su velleità liberal-imperiali.

Una precedente versione di questo articolo è stata pubblicata da Huffington Post