Merkel: una leader per la Germania, un po’ meno per l’Europa
La grande “Mutti”, madre del popolo tedesco, se ne va. Ancora una volta quest’estate, di fronte al dramma dell’inondazione nella Renania Palatinato, ha voluto rassicurare i suoi concittadini dichiarando con orgoglio che la Germania è potente ed ha tutti i mezzi e la forza per rimediare agli immensi danni materiali.
È questo il modo in cui Angela Merkel ha sempre cercato di superare le grandi sfide che hanno contrassegnato la sua vicenda politica. Nuovamente ha dispiegato le sue doti di prudenza, calma e fiducia, con cui nel passato ha cercato di fare fronte alle numerose crisi che hanno contraddistinto il suo periodo di governo. Basti qui ricordare il dramma finanziario mondiale del 2008/2009, o il successivo rischio di fallimento dell’euro, la decisione politicamente pericolosa di accogliere in pochi giorni oltre 1 milione di profughi siriani nel 2015, la tormentata vicenda della Brexit cui ha cercato di opporsi contro ogni evidenza, i turbolenti rapporti con Donald Trump fino al recentissimo attacco della pandemia.
Oggi, in vista delle elezioni del 26 settembre a cui Merkel non parteciperà, è quindi tempo per trarre un primo bilancio di questi importanti 16 anni di governo. Un periodo così esteso le ha permesso di conoscere ben otto presidenti del Consiglio italiani e quattro presidenti americani – da George W. Bush negli ultimi tre anni del suo mandato fino a Joe Biden, passando per Barack Obama e, come ricordato, il problematico Trump -.
Fra le tante virtù della cancelliera tedesca va sicuramente iscritta la prudenza: mai (o quasi) un azzardo, mai una mossa non studiata a lungo, mai un capovolgimento di posizione. Non sempre, tuttavia, la prudenza è un vantaggio nella gestione della politica, soprattutto nel campo delle relazioni internazionali. Diversi critici ritengono infatti che Angela Merkel abbia spesso evitato di prendere decisioni chiare di fronte a comportamenti inaccettabili di leader stranieri.
L’esempio principale è quello della sua ambiguità nei rapporti con Vladimir Putin. Dopo l’inglobamento della Crimea da parte di Mosca nel 2014 sono occorsi diversi mesi per convincere la Merkel ad adottare le sanzioni nei confronti della Russia, sanzioni richieste con forza sia da Barack Obama sia dai partner dell’Unione europea. Solo dopo l’abbattimento del volo della Malaysia Airlines MH17, con oltre 300 passeggeri a bordo, da parte dei ribelli filo-russi del Donbass ucraino la cancelliera ha alla fine accettato di punire Putin e di abbandonare la sua convinzione di fondo: mantenere aperte le linee di comunicazioni con i partner problematici. Perfino oggi, di fronte alle continue provocazioni, anche informatiche, del leader russo, Angela Merkel ha preso le distanze da Joe Biden rifiutando di accantonare il progetto del Nord Stream 2.
Lo stesso atteggiamento è stato tenuto nei confronti della Cina: da una parte la Merkel si è allineata ai suoi partner occidentali e all’America nella condanna dei diritti umani violati da Pechino sia a Hong Kong sia verso la minoranza musulmana degli uiguri, ma dall’altra ha spinto l’UE a firmare un accordo estremamente vantaggioso (per la Germania) sugli investimenti bilaterali Ue-Cina. Ci si chiede da più parti su cosa si basi questa politica aperta al dialogo, sempre e a tutti i costi. La spiegazione più nobile ha a che vedere con la cosiddetta Erinnerungskultur, la cultura del pentimento per gli atteggiamenti arroganti della Germania nel periodo nazista: never again, mai più, come hanno spesso ripetuto i leader tedeschi da Willy Brandt in poi. Ma se questa può essere in parte una delle ragioni dell’indecisione tedesca negli eventi sopra ricordati, in realtà a contare molto nella linea di politica estera tedesca vi sono gli interessi economici, in particolare quelli commerciali, che nel caso della Germania contano per ben il 50% del Pil (contro il solo 12% degli Usa). Con ciò si spiegano facilmente sia la decisione di concludere il progetto Nord Stream 2 con Mosca, sia l’accordo sugli investimenti con Pechino.
Ambiguità che si manifestano anche all’interno dell’Ue con la lunga sopportazione degli atteggiamenti antidemocratici del premier ungherese Viktor Orbán, mantenuto per troppo tempo nel Ppe europeo, il Partito popolare europeo largamente dominato dalla Cdu di Merkel. Indecisione che ha messo a rischio la coesione stessa dell’Ue. Ed è qui, proprio sui temi squisitamente europei, che è emerso il lato meno convincente della sua azione di governo e del suo carattere: la mancanza di visione e di strategia nei confronti dell’Ue.
È vero che la cancelliera ha alla fine salvato la Grecia e quindi l’euro ma, come spesso le è capitato di fare, la decisione è stata presa tardi sull’orlo del precipizio. Così i costi, anche politici, sono stati enormemente superiori, sia per Atene sia per gli altri partner europei. Ma soprattutto Angela Merkel ha lasciato regolarmente cadere nel vuoto le ripetute e ambiziose proposte di riforma che Emmanuel Macron le ha indirizzato nel corso della sua presidenza. Eppure su molte questioni, a cominciare dalla necessità di imporre il voto a maggioranza nel campo della politica estera europea, la cancelliera si è espressa positivamente in diverse occasioni. Ma alla fine non sono venute azioni forti e convinte nella direzione delle riforme. Come non sono mai arrivate proposte serie sulla politica di accoglienza e di asilo provenienti da Italia e altri paesi del Sud. Anzi la brutta storia dell’oneroso (per tutti gli europei) accordo con Recep Tayyip Erdogan di trattenere i migranti siriani in Turchia, a fronte di un bel pacco di soldi, ha fatto ben presto dimenticare la sua inaspettata apertura (uno dei pochi azzardi nella sua carriera) sull’immigrazione.
Solo con il provvidenziale lancio del Recovery Plan abbiamo finalmente visto l’Angela Merkel che molti attendevano da anni. Il ritrovato sentimento comune con Macron e la presenza a Bruxelles della sua collega tedesca Ursula von der Leyen le hanno dato la forza di proporre un piano di rilancio non solo economico, ma di straordinario interesse istituzionale per il futuro dell’Unione. Un bel canto del cigno.
Anche perché, malgrado le sue limitazioni, il giudizio complessivo su Angela Merkel non può che essere positivo, soprattutto per la grande stabilità e prosperità che questi 16 anni hanno portato alla Germania. Volenti o nolenti, alla fine del “regno” di Angela Merkel la Germania (ma non l’Ue) esce più forte e autorevole di quanto non lo sia mai stata prima.
Con questo intervento di Gianni Bonvicini, e in vista della successione in Germania, inauguriamo una serie di approfondimento dedicata ai 16 anni di Angela Merkel come cancelliera tedesca.
Foto di copertina EPA/ALEXANDER ZEMLIANICHENKO