Le macerie della potenza imperiale americana
L’anniversario dell’11 settembre, vent’anni dopo l’attacco alle Torri Gemelle – e a poche settimane da quella che è stata la “catastrofe afghana”, con il caos che ha prodotto e che continua a seguire a Kabul – ci dà l’occasione di riflettere su quello che è lo stato degli Usa nel mondo, ovvero su quella che è stata sostanzialmente una potenza imperiale, seppur nella sua “variante” da Ventunesimo secolo, e che adesso è in una fase di relativo declino. Relativo, perché chiaramente in termini assoluti gli Stati Uniti continuano e continueranno ad essere una superpotenza a livello globale. Ma non sono più com’erano una volta – e soprattutto come si consideravano –: una potenza egemone, nella loro stessa percezione, che è forse più importante della realtà.
L’11 settembre di fatto è stata l’occasione – si potrebbe dire la scusa – per gli Stati Uniti di riprendere in mano una agenda egemonica, incentrata sostanzialmente sull’esportazione dei valori, della democrazia (seppur a livello retorico, visto che a livello pratico c’erano anche e soprattutto altri interessi in ballo) e sulla “costruzione delle nazioni” ovvero il famoso nation building. Si parla quindi degli Stati Uniti “poliziotto del mondo”: disposti ad agire in modo unilaterale quando i loro partner e alleati non volevano agire con loro, o a forzare loro la mano il più delle volte, in modo tale che gli alleati europei seguissero Washington come avvenuto in Afghanistan e in parte anche in Iraq.
Oggi la situazione rispetto ad allora, e rispetto a quella percezione imperiale ed egemonica, è radicalmente cambiata. Se pensiamo a quello che è stato il discorso del presidente Joe Biden in occasione del 31 agosto, data del formale ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan, la dottrina è quella di una potenza che si considera ancora tale, ma non più egemone. È stata così trasmessa l’idea che gli Stati Uniti debbano difendere soprattutto i loro interessi, concepiti in maniera molto più “ristretta”, interna, rivolta verso di sé e molto meno proiettata al resto del mondo. Semmai, protesa a proteggere gli Stati Uniti stessi. Viene a mancare la visione degli Usa come forza geopolitica che plasma e domina il resto del mondo, da cui l’enfasi sui cittadini americani e i militari che ritornano a casa.
Ma c’è anche un’altra prospettiva più interessante, perché si ricollega poi a questa visione così differente che esisteva soltanto dieci anni fa: cioè quella degli Stati Uniti che non sono interessati a esportare valori e costruire nazioni. Il discorso di Joe Biden del 31 agosto dice chiaramente che questa non è la missione della politica estera americana. Così, in soli dieci anni, assistiamo a una svolta completa, di 180 gradi, dagli Usa “esportatori della democrazia” agli Usa protettori della loro stessa democrazia, in casa, e poco interessati ad esportarla altrove. Un atteggiamento post-imperiale, in tutta la sua crudezza.
Ma tutto questo cosa significa per noi europei? Da un lato – e questo è anche l’aspetto più paradossale – ci troviamo di fronte un’America “europeizzata”, che non crede più si debbano esportare i valori e la democrazia attraverso interventi militari – una posizione tradizionalmente squisitamente europea. Dall’altra questo lascia noi europei un po’ spaesati, perché siamo abituati a un’America che ci guida e a volte ci impone cosa fare in politica estera; e adesso stiamo vedendo in Afghanistan – ma non è la prima volta, perché lo abbiamo potuto vedere anche in Siria, Libia e Ucraina – che gli Stati Uniti non sono interessati a svolgere un ruolo proattivo di leadership, ma piuttosto a concentrarsi su quelle che sono le loro priorità strategiche, ad esempio il rapporto con la Cina. E a dire all’Europa, in sostanza, che “per quel che riguarda la vostra parte del mondo sta anche a voi diventarne responsabili“. È per questo che tra noi europei, se si pensa anche alle reazioni di diversi leader per quanto riguarda il tema Afghanistan, ci sono stati molto sconcerto, e anche molta frustrazione e rabbia.
Ma è una rabbia che ha più a che fare con noi, che con gli Stati Uniti d’America.
Trascrizione del contributo audio di Nathalie Tocci al podcast dello IAI sul ventennale dell’11 settembre. A cura di Caterina Maggi.
Foto di copertina EPA/ALBA VIGARAY