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L'ecologia secondo Mosca

La Russia green che verrà

7 Set 2021 - Paolo Calzini - Paolo Calzini

Il rilievo dato al tema della transizione ecologica, attualizzato dagli effetti devastanti del riscaldamento climatico, sottolinea l’urgenza di affrontare in concreto una minaccia, giudicata, in prospettiva, secondo il parere pressoché unanime degli scienziati del settore, di carattere esistenziale. Le prese di posizione allarmate adottate in occasione dei negoziati fra stati nell’ultimo decennio, cui non hanno fatto seguito iniziative vincolanti, sottolineano l’incapacità di dar vita a una governance climatica su scala globale. La Russia, al quinto posto fra i maggiori responsabili delle emissioni di monossido di carbonio, si è distinta in tutti questi anni per una manifesta riluttanza nell’affrontare i compiti che gli competerebbero in materia di politica ecologica. Mosca, infatti, firmataria della carta di Parigi del 20 maggio, solo nel 2019 ha ratificato il documento e si è impegnata di recente ad avviare un processo di regolamentazione, a riprova di quanto faticosamente si stia iniziando ad avvertire la consapevolezza dell’urgenza del problema.

Il ritardo  del regime russo e della società nel suo insieme – dal mondo degli affari a quello della cultura – nell’affrontare il problema  ambientale suggerisce, a premessa, una constatazione di ordine generale: la posizione del Paese, in larga misura situato nell’area settentrionale dell’emisfero e quindi esposto a un certo tipo di clima, porta a considerare istintivamente l’aumento della temperatura un fenomeno non necessariamente negativo. Ai vantaggi per la popolazione del poter fruire di un clima più tiepido, si aggiungerebbe l’ampliamento a nord di spazio disponibile per la produzione agricola, componente non secondaria dell’economia nazionale.

Non diversamente dall’opinione pubblica occidentale, anche quella russa è portata a vivere prescindendo dai costi per l’ambiente, in un “eterno presente”, influenzata com’è dalla campagna dei media a favore di una crescita a oltranza. Un certo   attaccamento ai valori della natura, componente tradizionale della spiritualità russa messa a dura prova negli ultimi anni dall’incuria del territorio, non può molto contro l’ideologia dello sviluppo, in nome della modernizzazione. A pregiudicare la situazione sotto il profilo ecologico contribuisce pesantemente, inoltre, la dipendenza strutturale della Russia dal massiccio ricorso alle fonti fossili, sia per uso domestico che per l’esportazione. Anche nell’ipotesi più favorevole, di riuscita del programmato cambio di indirizzo, si calcola che la disponibilità di energia rinnovabile potrà assestarsi a non più del 2,5% del totale entro il 2035. 

A promuovere l’avvio a un nuovo corso è stato lo scorso aprile, occasione dell’annuale discorso alla nazione, Vladimir Putin, individuando nella soluzione dei problemi legati all’ambiente le condizioni di progresso per il futuro del paese. Le motivazioni di una linea d’ azione che, se  portata  a compimento,  potrebbe risultare carica di implicazioni  politiche  oltre che economiche, sono sia di natura   domestica  che internazionale  La transizione da una presa di posizione  di principio a un’iniziativa di effettivo rinnovamento di un regime che è caratterizzato, pur in una condizione di  mantenuta stabilità, da crescenti sintomi di sclerosi e di inefficienza (con un tasso annuo di crescita del 1%) costituisce un compito di prima grandezza.

Il radicale rinnovamento di un apparato amministrativo segnato dalla corruzione, che soffoca l’economia – orientata prevalentemente ai consumi – spinge a   privilegiare forme di energia verde, condizione indispensabili per la fondazione di un’economia sostenibile. Si tratta di un indirizzo necessario per assicurare ai settori che guardano al mercato mondiale un grado di competitività nel campo dei beni industriali, capace di compensare il previsto ridimensionamento del 20% delle esportazioni di prodotti energetici il cui contributo è risultato in tutti questi anni cruciale per il bilancio dello stato.     

 Se e in che termini, considerati i limiti operativi di un regime autoritario connotato da un accentuato grado di inefficienza, il nuovo corso sarà in grado di procedere sulla via del progresso e dell’emancipazione in campo ambientale è difficile da prevedere. Nel merito dell’interrogativo, tenuto conto della realtà del quadro politico russo, risulta realistico limitarsi solo a un auspicio. A modificare l’atteggiamento del Cremlino, retto da un élite reticente ad affrontare le conseguenze di un processo innovatore di questa portata, potrebbe influire, oltre alla prospettiva di un effettivo ammodernamento del sistema produttivo, il prevedibile successo d’immagine sul piano internazionale. Una Russia disposta ad agire alla pari con Europa, Stati Uniti e Cina promuovendo un intervento risoluto ascenderebbe allo status di attore responsabilmente partecipe nella gestione di un ordine mondiale fondato sulla sicurezza comune.

Il riferimento, a questo proposito, a una politica di cooperazione registrata nel recente summit Biden-Putin, è sintomatica, se non altro, della condivisa consapevolezza della responsabilità delle superpotenze nucleari di fronte alle conseguenze causate dall’impotenza dimostrata dalla comunità degli stati nell’ affrontare la questione ambientale. L’aver individuato come motivo di impegno, a prescindere dalle tensioni politico-ideologiche, un ambito che per la sua specificità si presta in linea di principio a una fruttuosa interazione, va salutata positivamente. Anche se un’azione limitata alla dimensione ambientale lascerà insoluti gli altri problemi alla base delle rivalità fra Mosca e Washington, si tratterebbe di un’iniziativa in grado di aprire uno spiraglio nel muro di ostilità che domina i rapporti fra le parti, a tutto vantaggio della stabilizzazione del quadro internazionale.