La difficile partita della Chiesa di Francesco in America Latina
Per chi ha vissuto 76 anni della propria vita in un luogo è difficile pensare al mondo senza quel luogo al centro del ragionamento. Papa Francesco, che in Argentina e in America del Sud ha vissuto dalla nascita sino all’elezione a pontefice nel 2013, non fa eccezione. Il suo Paese e il suo continente – quello latino-americano, anche se è forte la tentazione panamericana – sono il nord magnetico della sua bussola.
Non è un caso, allora, che l’udienza dei giorni scorsi con il presidente del Cile Sebastián Piñera Echenique sia durata insolitamente a lungo. L’America Latina, per Bergoglio, rimane casa. Ma non solo: eletto pontefice, Francesco ha dovuto far fronte a un continente in subbuglio, sconvolto da ingiustizie sociali secolari e da diseguaglianze profonde che stanno lacerando il monopolio religioso della Chiesa cattolica. Le nazioni latinoamericane, quelle che fino a qualche decennio fa costituivano la spina dorsale del cattolicesimo globale, oggi si riscoprono sempre più lontane da Roma. Anche se, non per questo, meno cristiane.
L’Argentina del Papa
Insieme al presidente cileno, Francesco ha parlato (anche) di Argentina. Del resto, il pontefice lo fa spesso con i vicini di casa latinoamericani, non volendo farlo altrettanto spesso con i suoi concittadini. E lo sono pienamente, visto che Bergoglio, nonostante il passaporto diplomatico da capo di Stato della Città del Vaticano, mantiene – e rinnova regolarmente – il proprio documento d’identità argentino.
Con Piñera Echenique la questione argentina è stata circumnavigata. Dopo le discussioni sul Cile, sulla necessità di impegnarsi maggiormente per la tutela dei deboli e dei poveri, il presidente ha presentato al papa la storica controversia sul canale di Beagle. Una contesa antica, che il Vaticano aveva già esaminato e sulla cui risoluzione, siglata nel 1985, è riportata la firma anche di papa Giovanni Paolo II. Eppure, quasi quarant’anni dopo, Buenos Aires accusa il Cile di violare i limiti della piattaforma continentale disegnata proprio in Vaticano. Improbabile che a dirimere la vicenda sia ancora il Papa, soprattutto perché argentino.
Atipico, però. O meglio: molti lo dipingono così. Perché papa Francesco, in Argentina, non ha più fatto ritorno in visita ufficiale. Le ipotesi e le congetture sui motivi che trattengono Bergoglio dal ripresentarsi nella sua patria sono molte, ma alla base vi è un’unica ragione: il pontefice non vuol diventare un vessillo politico. Vicino alla galassia peronista sin dalla gioventù, Francesco ha vissuto – e vive – quotidianamente il conflitto che ha fatto la storia del continente, quello tra nazional-cattolici e laici liberali.
Una frattura che risale alle guerre d’indipendenza latinoamericane e che non si è mai interamente ricomposta. In Argentina, le forze politiche che hanno incarnato queste tendenze hanno diviso il Paese: da una parte il peronismo e il Partido Justicialista, eredi del cattolicesimo nazionale e iberoamericano; dall’altra i partiti liberali, market-friendly e solitamente filostatunitensi che, sino al 2019, detenevano la più alta carica del Paese grazie al presidente Mauricio Macri. Un vero e proprio avversario, quest’ultimo, per papa Francesco, che in lui vedeva quanto di più lontano dall’anima autentica dell’Argentina cattolica e dalla sua visione economica.
Nonostante il successo elettorale dei peronisti, tornati al potere con Alberto Fernández e la vicepresidente Cristina Kirchner, il viaggio in Argentina di Francesco è destinato ad attendere, se non proprio a dover restare soltanto un’ipotesi. Il rischio di rimanere impelagato nelle contese domestiche di un Paese spaccato è troppo alto.
Marea evangelica
L’America Latina cattolica, però, invoca a gran voce il suo pontefice. La geografia religiosa del continente, infatti, sta mutando a velocità supersonica. Quello che per secoli è stato il serbatoio di anime della Chiesa romana si sta svuotando rapidamente, lasciando l’America del Sud non meno cristiana. Il declino cattolico è controbilanciato dall’ascesa apparentemente incontrastabile del protestantesimo in tutte le sue forme. Luterani, calvinisti, evangelici e pentecostali, ormai da qualche decennio, hanno tracciato una parabola di crescita impressionante: nel 2017, secondo il Cia World Factbook, il 26% della popolazione brasiliana è di fede protestante, così come il 17% lo è in Venezuela, Perù e Cile.
Alla marea rosa – ovvero lo spostamento verso sinistra dei governi latinoamericani nel primo decennio degli anni Duemila – e alla marea azul – la controrivoluzione conservatrice del decennio successivo – occorre allora aggiungerne una terza, più antica e, potenzialmente, più incisiva. Questo perché, nonostante i cambi di colore abbiano spesso significato imponenti cambi socioeconomici, la trasformazione religiosa dell’America Latina rischia di trasformarne le strutture portanti.
Cattolicesimo e America Latina, per secoli, sono stati perfettamente sovrapponibili. Lo scivolamento verso un protestantesimo maggioritario apre a scenari mai sperimentati. E la Chiesa cattolica, almeno per il momento, non sembra in grado di rispondere alla sfida. Papa Francesco ha spesso cercato il dialogo anche con i movimenti pentecostali ed evangelici, e probabilmente, da argentino che ha vissuto in prima persona questo mutamento, la sua strategia servirà da lezione. Anche alla Chiesa stessa, chiamata a riscoprire forme di spiritualità diverse.
Il caso Brasile
Il rischio più grande che sta correndo la Chiesa cattolica in America Latina è quello brasiliano. Nazione cattolica per eccellenza e primo Paese al mondo per numero di cattolici, il Brasile sta trainando la locomotiva del protestantesimo latino-americano. I censimenti e i sondaggi degli ultimi anni dipingono un Paese in cui, a breve, saranno gli evangelici ad avere la maggioranza assoluta. Tanto da poter superare il maestro: se negli Stati Uniti le stime parlano di cento milioni di fedeli evangelici, le proiezioni vedono il Brasile superare quella soglia tra qualche decennio.
Ma già da qualche anno, la comunità evangelica è determinante nelle dinamiche economiche e, di conseguenza, politiche del Paese. La teologia della prosperità, che irrora la fede evangelica e che esalta la materialità della vita terrena elevandola a garanzia di salvezza nell’aldilà, corrobora l’agenda della destra neoliberale. Ciò ha trovato conferma nell’elezione dell’attuale presidente, Jair Bolsonaro, ex militare cattolico ma sedotto e sospinto nel voto dall’evangelicalismo.
Bolsonaro, durante la sua presidenza, ha cercato di soddisfare le richieste degli evangelici non solo nell’ambito della morale sessuale – “In Brasile l’aborto non sarà mai legalizzato”, ha twittato lo scorso anno criticando l’approvazione di una legge pro-choice in Argentina – ma anche in economia e politica estera. Emulando l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, Bolsonaro aveva annunciato che anche il Brasile avrebbe spostato la sua ambasciata in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. Salvo, però, ritirarsi di fronte all’economia spicciola e alle pressioni dei produttori di carne, che con i Paesi arabi intrattengono commerci per oltre cinque miliardi di dollari all’anno.
Il sorpasso evangelico sui cattolici in Brasile è il punto di rottura della comunità cattolica in America Latina. Per Francesco, allora, l’evoluzione della tendenza brasiliana sarà fondamentale per la tenuta del suo continente. Poco o nulla, infatti, potranno cambiare le elezioni del prossimo anno: i sondaggi, che danno l’ex presidente Ignacio Lula da Silva in netto vantaggio su Bolsonaro, non cambiano la storia della ritirata cattolica. Del resto, la bancada evangelica – ovvero, il fronte trasversale degli evangelici in parlamento – è sempre più numerosa e accomuna deputati di destra e di sinistra. La marea evangelica, a differenza delle altre due, non si potrà fermare con un voto nell’urna.
Foto di copertina ANSA / LUCA ZENNARO