Bouteflika: una volpe del deserto in un’epoca di giganti
Ciò che fa frastuono nel mondo, dopo che Abdelaziz Bouteflika ha esalato il suo ultimo respiro, è il suono del silenzio. Quello della televisione nazionale che dedica poco e niente all’ex presidente, quello dei quotidiani, quello del popolo dei social che si dà all’humour nero “È morto Bouteflika / Di nuovo?”. L’indifferenza finisce per essere il vero punto alla fine di una lunga frase, quella dei suoi quattro mandati. Anche se da qui a dire che si tratti di un punto e a capo, è tutta un’altra storia.
Quale che sia il giudizio della Storia, l’ex presidente dell’Algeria Bouteflika è stata una figura chiave nel Mediterraneo del passato, quando Stati grandi e piccoli tentavano di sopravvivere in mezzo alla lotta titanica tra due super potenze: Stati Uniti e Unione Sovietica, impegnati in un braccio di ferro di alleanze e contro-alleanze anche in Africa, anche nel Maghreb. Bouteflika ha avuto se non il merito, la peculiarità di sapersi destreggiare – lui piccolo per statura e importanza, una figura quasi infantile quando è catturato in foto vicino a Saddam Hussein o Assad padre – in un periodo storico non facile per chi non voleva allearsi con nessuno dei due giganti globali. Almeno prima che la vecchiaia lo costringesse sulla sedia a rotella, afatico, una specie di vestigia del passato di un’Africa mediterranea coinvolta nel tango di alleanze e giochi di equilibrio tra Mosca e Washington. E di quell’epoca e della sua degenerazione – la stessa di un altro leader sclerotizzato, il tunisino Habib Bourguiba – il “dinosauro” della politica algerina ha incarnato la parabola.
Da incendiario a pompiere
Prima il Bouteflika incendiario, un rivoluzionario (come amava definirsi lui) di cui però, soprattutto per quanto riguarda il periodo della guerra di liberazione dalla Francia, si ricordano di più le diserzioni che gli atti di valor militare. Lui stesso si premurò a tenere il riserbo su buona parte della sua vita, come la nascita in Marocco, depennata dalle biografie ufficiali per motivi di opportunismo politico. Intraprendente braccio destro di Houari Boumédiène che nel ruolo del più giovane ministro degli Esteri al mondo stringe legami con i Paesi non allineati, accoglie Nelson Mandela e Che Guevara, concede cittadinanza ai rivoltosi di tutto il mondo; un uomo tiepidamente al fianco della Russia ma man mano sempre più vicino agli Stati Uniti. Prima sorridente al fianco di Lula, protettore e dialogatore con criminali di fama internazionale come il comandante Carlos; anni dopo, sedotto dai proventi che l’Occidente è ben contento di dar loro in cambio delle risorse naturali.
Un momento di stop, quello del suo esilio tra Dubai e la Francia, dovuto pare a uno scandalo finanziario. Non il primo, e nemmeno l’ultimo, in una carriera spesso venata dalla corruzione. Poi il ritorno nel 1999, dopo anni di basso profilo durante il periodo della guerra civile, pronto a conquistare il potere facendo assai probabilmente ricorso ai brogli. Bouteflika non è stato mai un eroe, o un leader di quelli che trascinano le folle; era un Macchiavelli più volpe che leone, silenzioso tessitore di trame all’ombra di personaggi ben più famigerati, capace però di ritagliarsi come ministro degli Esteri un ruolo da indispensabile mediatore.
Il racconto dei media
Eppure, anche l’estero sembra essersene dimenticato. I giornali stranieri inseguono il rialzo delle bollette in Europa, i sobbalzi del Partito democratico in America, le prossime battaglie della guerra alla pandemia. Gli si dedica qualche biografia sui media francesi, qualcuno raccoglie due o tre opinioni dalla strada dopo i primi giorni di totale silenzio stampa; due cenni alla vita sul Guardian, qualche stralcio consultabile anche sui manuali di storia, niente di deflagrante. Anche le parole di Emmanuel Macron sono abbastanza scontate e laconiche – due righe in croce su Le Figaro. Si sforza un po’ di più qualche media africano, così come anche il re del Marocco, ma siamo ben lontani dai fasti di un funerale eroico, per quanto è con gli eroi che Bouteflika viene seppellito.
In Algeria, la chiave è il silenzio. Qualche chiacchiera, ovvio, per strada, dove ci si divide tra chi commenta “Pace all’anima sua, ma non ha fatto niente per il Paese” e chi invece gli concede un perdono postumo commentando “In fondo, qualcosa di buono ha fatto anche lui”. Poca roba. Per il resto, la vita va avanti. La metafora più significativa dei suoi ultimi anni: lui come un sepolto vivo, afatico, senza parola e senza importanza, un fantasma di un incubo passato dimenticato in un angolo; fuori, un’Algeria in rivolta che invade le strade come un fiume in piena, prima, e poi la quotidianità, come un corso d’acqua più lento e pacifico, che non ha tempo di occuparsi di vestigia di vecchi tiranni, che vive di contingenza e presente. Un silenzio che è anche prova di orgoglio degli algerini, un non voler dare importanza a un uomo che da anni era solo uno spettro, che quel silenzio stesso imponeva perfino sui morti.
L’Algeria di oggi non è messa meglio di quella di due anni fa. Ostaggio come il resto del mondo della pandemia, funestata dai terribili incendi – forse dolosi – di questa estate, disillusa da un governo di transizione che continua a soffocare il libero pensiero e le manifestazioni come quello precedente. Bouteflika muore nel silenzio, perché quello che ancora non va in Algeria, fa troppo rumore.