IAI
Malcontento in Brasile

Bolsonaro è al capolinea, ma non il “bolsonarismo”

13 Set 2021 - Caterina Maggi - Caterina Maggi

“Fora Bolsonaro”. Migliaia di manifestanti di diversa estrazione politica sono scesi in piazza nei giorni scorsi, nelle principali città del Brasile, per protestare contro il presidente Jair Bolsonaro. Gli ultimi risultati dei sondaggi e quelli dell’inchiesta parlamentare sembrano parlare chiaro: il regno dell’ex militare è al tramonto. L’opinione degli elettori nei suoi confronti è drasticamente mutata dopo circostanze dell’ultimo anno, prima tra tutte la pandemia: le proiezioni sulle preferenze elettorali lo danno appena al 24% contro il 40% del suo sfidante socialista Inacio Lula da Silva, su un sondaggio realizzato su 1000 interviste tra il 11 e il 14 agosto; inoltre, il 64% degli elettori ha definito “pessimo” il suo esecutivo, in particolar modo per quanto riguarda la gestione della pandemia.

Ma è soprattutto il suo atteggiamento a dare l’impressione che il soldato fanfarone del 2018 non senta più stabile la terra sotto i piedi: da attacchi continui verso qualsiasi tipo di opposizione, condotti soprattutto attraverso tweet e post, a goffe marce indietro. Come quella del 9 settembre scorso, quando ritornando su alcune sue parole ha dichiarato di “non voler passare sopra a nessun istituto democratico” e che le parole erano dovute al “calore del momento”. Le parole in questione erano accuse dirette alla Corte Superiore Federale, che secondo il leader dell’estrema destra starebbe organizzando un golpe a suo danno; Bolsonaro aveva inoltre annunciato di non voler accettare il risultato delle elezioni del 2022, definendo una “farsa” il voto elettronico che sarà utilizzato in alcuni distretti del più grande stato del Sud America. Una tattica, insieme alla nuova legge contro la censura dei social network, che lo rende molto simile al suo “maestro di populismo” Donald Trump. Ma che al suo modello non ha portato molta fortuna.

L’ombra dell’impeachment
Tra il primo Bolsonaro e quello di oggi sono passate diverse cose, tra cui un’emergenza sanitaria gestita, dal Brasile in special modo, con una propaganda disastrosa. Le audizioni in Senato per le indagini in merito alla pandemia – quelle che potrebbero aprire l’impeachment temuto da Bolsonaro – hanno svelato retroscena inquietanti: la pandemia che ha ucciso 600 mila brasiliani è stato fomentata non solo dalla propaganda del presidente, ma da veri e propri atti di boicottaggio contro le misure sanitarie. Da mancati rifornimenti di ossigeno negli ospedali delle aree rurali, costati la vita di centinaia di pazienti Covid, al rifiuto dell’offerta di Pfizer, che aveva proposto per primo al Brasile l’acquisto di 1,5 milioni di dosi del vaccino tra agosto e novembre 2020. Fiale rifiutate in virtù di una strategia atroce: l’immunità di gregge, che secondo le stime il governo Bolsonaro avrebbe potuto raggiungere solo prevedendo 1,4 milioni di morti, più del doppio di quelli attuali.

Le motivazioni del rifiuto delle dosi Pfizer? “Costavano troppo”. Quello di cui non si capacitano i brasiliani scontenti del governo, è come sia possibile che le casse fossero troppo vuote per pagare le dosi del vaccino a novembre 2020, ma si siano insperatamente riempite nel 2021 quando si è trattato di salvare la Petrobras, la compagnia petrolifera nazionale a parziale controllo statale. Mentre 70 milioni di brasiliani rimanevano isolati dalla campagna vaccinale, Bolsonaro annaspava cercando di salvare la nuova dirigenza – un ex generale senza esperienza nominato proprio da lui – dalla furia degli autotrasportatori, che però sono parte del suo bacino elettorale. Un confronto da cui il presidente non è uscito senza difficoltà.

In piazza per il presidente
Anche la manifestazione pro-Bolsonaro del 7 settembre, al netto dell’imponente partecipazione, è stata un’ulteriore prova della debolezza del leader. Che aveva promesso da 500 mila a un milione di partecipanti, e ne ha trovati secondo le autorità 100 mila circa. E che ha dovuto ridiscutere le sue parole dopo una telefonata con il giudice Alexandre de Moraes e una riunione fiume con i suoi ministri, tra i quali diversi – secondo fonti interne – sarebbero stati molto reticenti ad appoggiare l’ex militare. Bolsonaro, insomma, può essere politicamente finito. Ma si può dire lo stesso del “bolsonarismo”, del populismo alla brasiliana? Il problema è lo stesso che si pone per altri populismi, spuntati come funghi ovunque sul pianeta; e cioè, l’alternativa c’è? E se sì, qual è?

Come ha spiegato in un intervento il sociologo Lejeune Mirhan, le masse di bolsonaristi alle manifestazioni sono come un “assaggio di zuppa” da un “paiolo” più grande: danno un’idea di quale sia il clima, e scoraggiano dal pensare che finito Bolsonaro, sia finito il bolsonarismo. Perché nel grande calderone del fascismo brasiliano il bolsonarismo è solo un cucchiaio di zuppa, e nemmeno il più amaro: anche l’ascesa, un milione e mezzo di affiliati, di Ação Integralista Brasileira dovrebbe mettere inquietudine, visto che il partito di Plinio Salgado è riuscito a salire all’8% delle preferenze. È vero, il malcontento verso il governo cresce. Perfino i media fedeli al Apb come Portal R7 fanno fatica a trovare argomenti che non siano l’”ossessione giudiziaria contro il popolo di Bolsonaro” (ultimo in ordine di tempo un articolo sull’arresto di un blogger bolsonarista).

Crescita e sicurezza
Jair Bolsonaro aveva promesso crescita economica e sicurezza. Nel primo caso, la recessione dovuta alla pandemia ha colpito l’industria con un calo dell’1,2% rispetto ai livelli di produzione pre-pandemici. Nel secondo caso – particolarmente importante visto che l’83% dei brasiliani teme di essere vittima di crimini violenti – secondo un report del 2021, l’Istituto di Economia e Pace ha messo il Paese al 128° posto per sicurezza, registrando almeno 5 mila nuovi atti di violenza. La strategia di Bolsonaro, cioè garantire maggiori margini di repressione alle forze di polizia, ha scatenato un movimento interno affine a Black Lives Matter, visto che i peggiori abusi di forza dei militari sono avvenuti in contesti particolarmente razzializzati. Insomma, i due cavalli di battaglia di Bolsonaro sono tra i primi elementi della sua campagna a zoppicare.

Ma l’errore, avvertono gli analisti, potrebbe essere pensare che con Bolsonaro sia la fine di un periodo buio di estremismi e intolleranza.   Se il sistema rimarrà in piedi, se alle domande e alle rivendicazioni non per forza illegittime di milioni di brasiliani – rispetto a problemi decennali come la corruzione – non verranno date risposte, il populismo di Bolsonaro potrà riemergere dall’ombra. Il Lula può anche vincere la battaglia contro l’estremismo bolsonarista, ma deve ricordarsi perché il bolsonarismo ha vinto: per una campagna giudiziaria, Lava Jato, da cui lui è stato scagionato, ma non il resto del sistema brasiliano. E d’altra parte, una delle ragioni della sua assoluzione è stata proprio la corruzione e la poca trasparenza di una figura giudiziaria come Sergio Moro.

Lula dovrà pensare anzitutto ad allevare una nuova classe politica, dopo la vittoria; e riuscire a convincere gli elettori che qualcosa, nel Brasile post-pandemico, è davvero cambiato.

Foto di copertina EPA/Fernando Bizerra