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Talebani a Kabul 20 anni dopo

La caduta dell’Afghanistan e il dramma del ritiro Nato

16 Ago 2021 - Alessandro Marrone - Alessandro Marrone

Nel 2011 ero a Kandahar insieme ad una delegazione di esperti e funzionari dei Paesi Nato, ad incontrare il presidente del Consiglio provinciale Ahmed Wali Karzai, fratello dell’allora presidente afghano Hamid Karzai, entrambi Pashtun. Andammo con un elicottero dei marines dall’aeroporto cittadino alla base Nato, e poi con un convoglio di blindati alla nuova sede del Consiglio provinciale. Dopo il tè di rito, un collega chiese a Karzai se si sentiva sicuro nel ricoprire quel ruolo visto il rischio di attacchi talebani. Lui rispose che, da quando aveva assunto l’incarico, l’edificio in cui ci trovavamo era stato attaccato undici volte e distrutto tre.

Poche settimane dopo la nostra visita, Karzai fu ucciso. Un episodio simbolo della lotta in corso tra le diverse fazioni afghane, sempre sul filo del rasoio, e della fragilità dei progressi compiuti dopo il 2001 al prezzo di migliaia di morti occidentali e afghani, tra cui 53 militari italiani.

Oggi Kandahar è di nuovo in mano ai talebani, così come Kabul e l’intero Afghanistan. Compresa Herat, dove per 15 anni l’Italia ha guidato il contingente Nato nella pacificazione e ricostruzione della provincia, raggiungendo importanti risultati quanto a stabilità, sicurezza, istruzione, sanità, sviluppo socio-economico, condizione delle donne. Da quando lo scorso maggio Stati Uniti e Nato hanno iniziato a ritirarsi dall’Afghanistan, in pochi mesi i talebani si sono presi il Paese. Come è possibile? E che senso hanno avuto allora 20 anni di impegno occidentale?

“Voi avete l’orologio, noi il tempo”
L’impressionante efficacia e rapidità dell’avanzata talebana ha diverse concause, tra cui i tempi estivi del ritiro piuttosto che la corruzione diffusa tra le istituzioni governative, ma un solo motivo fondamentale. Alle forze armate afghane non mancavano effettivi, mezzi e addestramento, che a livello tattico e operativo sono stati costruiti faticosamente negli anni dai militari Nato proprio nell’ottica di una transizione – “Inteqal” – della sicurezza del Paese nelle mani delle istituzioni locali.

Quello che è venuto meno, a livello strategico, è stata la deterrenza militare occidentale. Dopo il 2014 gli effettivi della missione Nato Resolute Support sono stati nell’ordine di 12-16mila, circa un decimo degli oltre 145.000 militari dispiegati nel Paese al picco delle operazioni dell’International Security Assistance Force. Eppure ancora nel 2017 i distretti controllati dai talebani si contavano sulle dita di una mano. Perché? Perché quei pochi effettivi Nato erano sufficienti per respingere insieme agli afghani un attacco limitato, e perché avrebbero attivato rapidamente copertura aerea e rinforzi occidentali tali da fermare anche un’offensiva massiccia. Offensiva che infatti non si è materializzata fino al ritiro della primavera 2021.

“Voi avete l’orologio, noi il tempo” è uno dei motti preferiti dai talebani. I quali hanno aspettato che la fatica politica per un intervento così prolungato portasse gli Usa e i loro alleati a ritirare anche quel contingente che agli occidentali costava poco mantenere – pochissimi i caduti Nato dopo il 2014 – ma che per le forze armate afghane faceva la differenza tra la vita e la morte.

Gli effetti disastrosi un ritiro completo
Una volta che Trump e Biden, in perfetta sintonia, hanno deciso di portare via fino all’ultimo soldato americano costi quel che costi, è si è capito che il vento girava a favore dei talebani. Il sud Pasthun e Kandahar sono stati i loro primi successi. Così la gran parte della popolazione afghana – compresi capi tribù e capi villaggio, miliziani, ma anche poliziotti e militari -, che per sopravvivere deve scegliere per tempo con chi schierarsi, ha capito che i talebani avrebbero vinto, ed è saltata sul carro del vincitore per non restarne schiacciata. Innescando un effetto domino devastante di diserzioni e rese, fino alla fuga all’estero del vertice politico afghano, con il presidente Ashraf Ghani che ha lasciato Kabul il 15 agosto.

Non si spiega altrimenti perché distretti popolati in prevalenza da tagiki e/o uzbeki, dove la presenza talebana è stata sempre marginale, abbiano voltato repentinamente le spalle al governo nazionale. In questo senso, il ritiro completo dei militari occidentali è stato un grave errore, dagli effetti disastrosi sulle forze armate e di sicurezza afghane, e in definitiva su tutto il processo istituzionale, politico e sociale costruito con sudore, lacrime e sangue in 20 anni. Un errore simile a quello compiuto dall’amministrazione Obama in Iraq nel 2011, con un ritiro completo che ha aperto la strada allo Stato Islamico pochi anni dopo – senza scomodare il paragone con l’abbandono del Vietnam del 1975 -.

Un errore di cui gli europei sono pienamente corresponsabili. Nel 2020, dei 16mila effettivi di Resolute Support solo la metà erano statunitensi: non sarebbe stato così difficile per gli altri 29 Paesi Nato mettere insieme ulteriori 8mila truppe e mantenere così la stessa presenza deterrente – se solo lo avessero voluto, considerando ad esempio che l’Afghanistan è la prima fonte di  oppio per il mercato della droga europeo, e uno dei principali Paesi di origine di migranti verso l’Europa -.

Il senso di 20 anni in Afghanistan
Oggi è giusto quindi chiedersi che senso abbiano avuto 20 anni di impegno occidentale in terra afghana. Se l’obiettivo primario di Washington era evitare che il Paese fosse un rifugio sicuro per il terrorismo internazionale islamico dopo l’11 settembre, l’assenza di grandi attentati negli Usa negli ultimi due decenni è un segno di successo. Un successo però dovuto sia alla guerra in Afghanistan, sia alle operazioni di intelligence, forze speciali e droni in più Paesi – in fondo, Osama Bin Laden è stato ucciso in Pakistan -.

Se l’obiettivo degli Stati Uniti e della comunità internazionale era costruire delle istituzioni afghane che si avvicinassero agli standard minimi dell’Asia centrale quando a servizi essenziali come giustizia, istruzione e sanità, e una qualche forma di rappresentanza politica, gli indicatori fino al 2020 erano relativamente positivi rispetto al regime talebano del 2001. Le centinaia di migliaia di esuli afghani tornati per ricostruire il Paese, i milioni di bambini e adolescenti a scuola, le decine di milioni di voti espressi nelle elezioni, le dighe costruite per portare acqua ed elettricità, le strade e gli ospedali.

Al di là dei numeri, c’erano e ci sono i volti delle bambine che andavano a scuola nonostante i talebani cercassero di sfigurarle con l’acido, quelli degli insegnanti, giornalisti, interpreti, impiegati che potevi incontrare tra Kabul e Kandahar. Non intervenire in teatri del genere è una scelta legittima, che preserva le vite dei connazionali lasciando ad altri la responsabilità diretta del dramma, come in Siria e Yemen. Una scelta sempre più probabile per l’Occidente da quando la priorità è diventata il confronto con la Cina. Ma intervenire in un Paese come l’Afghanistan vuol dire prendere un impegno di lungo periodo, nel bene e nel male, con chi si sostiene contro nemici mortali quali i talebani. Impegnarsi e poi andarsene in questo modo vanifica in un certo senso molti dei sacrifici degli afghani e di chi in Afghanistan in questi 20 anni ci ha lavorato, ci ha combattuto, e ci è morto.

EPA-EFE/STRINGER