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La mossa del presidente

Via il governo e stop al Parlamento: Tunisia in bilico dopo l’annuncio di Saïed

28 Lug 2021 - Giulia Cimini - Giulia Cimini

Lo scorso 25 luglio, il presidente tunisino Kaïs Saïed ha annunciato a sorpresa la destituzione del governo, la sospensione delle attività del Parlamento per trenta giorni, e la revoca dell’immunità dei deputati invocando i poteri conferitigli dalla Costituzione in caso di “eccezionali circostanze”.

E mentre l’esercito – forza finora apolitica e storicamente marginale negli equilibri del Paese nordafricano –bloccava fisicamente l’accesso al Bardo, sede del Parlamento, la decisione del presidente è stata salutata da folle in festa riversatesi nelle strade della capitale e di molte altre città, tra tifi da stadio intorno a mezzi militari e slogan contro il governo tecnico e gli islamisti di Ennahda. Nel frattempo, proprio Ennahda ha denunciato attacchi da parte di gruppi anarchici ai danni di suoi attivisti e diverse sedi territoriali in tutto il Paese. A Tunisi, le forze di polizia, su disposizione presidenziale e in aperta violazione della libertà di stampa, hanno occupato e sgomberato gli uffici dell’emittente qatarina Al Jazeera, nota per la sua linea pro-islamista. Nel tentativo di garantirsi la lealtà di esercito e polizia, Saïed ha inoltre rimosso il ministro della Difesa e nominato un suo fedelissimo come ministro degli Interni.

Di fronte a questi eventi e alle manifestazioni di piazza, è impossibile non tornare indietro con la memoria al colpo di stato del 2013 in Egitto, quando l’esercito destituì l’allora presidente democraticamente eletto Mohamed Morsi, esponente della Fratellanza musulmana (e poi deceduto in prigione), tra il silenzio della comunità internazionale e il sostegno di gran parte della popolazione locale. Sappiamo bene cosa è successo in seguito.

I timori di Ennahda
Per quanto sia difficile sostenere, ad oggi, che sia in atto una restaurazione autoritaria o che il presidente Saïed voglia legittimare, con la sua presa di potere, una futura repressione contro gli islamisti o qualunque altro gruppo politico, il timore mai sopito di Ennahda di un ritorno agli anni dell’esilio e della clandestinità sotto il regime di Ben Ali sembra ora trovare nuove conferme.

Prima forza in Parlamento (seppur con meno di un quarto dei seggi totali) ed attore governativo nell’ultimo decennio ad eccezione delle parentesi tecnocratiche come l’ultima del governo di Hichem Mechichi, Ennahda è inevitabilmente associato ad un establishment ritenuto autoreferenziale e incapace di far fronte alle necessità del Paese. Nonostante non siano direttamente al potere dalle ultime elezioni legislative, gran parte della rabbia e frustrazione popolare è confluita contro gli islamisti.

Del resto, Ennahda – che ha visto diminuire progressivamente la sua forza elettorale dal 37% nel 2011 al 19% nel 2019 – ha pagato sempre più la sua politica del consenso e del compromesso a tutti i costi. Queste scelte strategiche dettate dalla leadership di Rashid Ghannouchi, su cui molto ha influito proprio il timore di tornare allo status quo ante rivoluzione, hanno sì stabilizzato il Paese in più occasioni ma anche impedito riforme potenzialmente conflittuali quanto estremamente necessarie.

Instabilità politica
Nodo centrale della questione, tuttavia, non è arrestare la deriva islamista, presunto risvolto positivo che alcuni hanno voluto vedere nella decisione di Saïed e che dovrebbe sbloccare una situazione politica in stallo da mesi. Il tutto mentre la Tunisia versa in una grave crisi sanitaria con circa 200 morti al giorno (su una popolazione che è poco più di un quinto di quella dell’Italia), carenza di vaccini e un sistema sanitario al collasso.

In questo contesto, l’avversione tout-court nei confronti degli islamisti che torna ciclicamente ad alimentare radicati sospetti e polarizzazioni continua a distogliere l’attenzione da responsabilità ben più profonde, di Ennahda in primis, e di tanti altri attori, come il fallimento nel far fronte alle sfide economiche e sociali. Ciò è avvenuto a dispetto del colore politico o dei principi islamici, oltretutto sempre più annacquati nel tempo, ed ha molto più a che vedere con la mancanza di politiche, visioni e programmi concreti, caratteristica trasversale e deprecabile della classe politica.

Tuttavia, questione cruciale è, oggi, la legittimità di una decisione così radicale, indipendentemente da chi ne sia il vincitore o lo sconfitto nell’immediato. L’atto di Saïed costituisce un precedente pericolosissimo, e una palese manipolazione delle disposizioni costituzionali. Tanto più grave è la situazione vista l’inesistenza di una Corte costituzionale – sulla cui composizione i partiti politici non sono mai riusciti a trovare un accordo in questi anni –, che sarebbe stato l’unico organismo in grado di dirimere le controversie sull’attribuzione dei poteri tra le varie cariche istituzionali, porre fine al periodo di emergenza dichiarato dal presidente garantendo così lo stato di diritto.

“Colpo di Stato”
L’articolo 80 invocato da Saied, infatti, prevede per il presidente della Repubblica la possibilità di prendere ogni provvedimento necessario in caso di imminente pericolo e minaccia alle istituzioni della nazione o alla sicurezza e all’indipendenza del Paese che impedisca un regolare funzionamento dello Stato. Non solo è difficile ravvisare questa fattispecie seppur alla luce dell’attuale crisi pandemica, ma ancor più arbitrario è il congelamento dell’assemblea parlamentare che, nel testo costituzionale, è anzi chiamata ad una sessione continua per tutto il periodo in cui permane questo stato d’eccezione.

E se il presidente si difende dalle accuse di colpo di Stato, non solo i partiti maggioritari in Parlamento ma anche altre forze politiche di opposizione – dal partito comunista all’ormai quasi estinto Nidaa Tounes – non hanno esitato a definirlo tale. Molti cittadini sono scesi in piazza a celebrare la dipartita di un ennesimo governo impantanato nell’immobilismo, ma tanti altri sono scettici e preoccupati di quanto potrà accadere.

Stando agli ultimi sondaggi, Saïed si conferma la figura più popolare (39%), anche se il sostegno di cui gode è di gran lunga diminuito rispetto ai livelli del 2019 (tra il 70 e l’80%). Non vi è traccia, tuttavia, di un suo progetto alternativo di lungo periodo, al di là di generici proclami e nebulose affermazioni. Preoccupa, inoltre, il ruolo che forze come esercito e polizia potranno giocare in questo frangente, mentre un attore chiave nello scenario politico e sociale quale è il sindacato dell’Ugtt si è mostrato alquanto compiacente con la linea presidenziale.

Al di là di ogni retorica, è davvero troppo presto per trarre bilanci definitivi. Senza dubbio, che un uomo di legge come il presidente abbia preferito dare tale manifestazione di forza, anziché negoziare una revisione costituzionale in nome di quello stato di diritto che sostiene voler tutelare, non promette nulla di buono.

Foto di copertina EPA/STR