Schrödinger a Bruxelles: lo strano gatto Ue dell’integrazione differenziata
Il recente articolo di Giuliano Amato su AffarInternazionali rappresenta un progresso importante in una discussione sull’integrazione differenziata all’interno dell’Ue che scivola troppo spesso nell’astrazione e nel formalismo. La differenziazione è diventato il modo per evitare la paralisi dell’Europa a 27; la pratica è stata consacrata in varie modifiche del trattato. Vale però la pena di constatare che questi marchingegni giuridici hanno fatto molto poco per risolvere i problemi concreti; certamente non i più gravi. Più importante è stata invece la pratica degli opting out concessi ad alcuni Paesi, per esempio nell’adesione all’euro.
Ha inoltre ragione Amato nel rilevare che la descrizione del processo come un fenomeno di avanguardie che ad un certo punto saranno inevitabilmente raggiunte dalle retroguardie, sta largamente diventando una petizione di principio. Altrettanto illusoria si sta dimostrando, per i motivi da lui indicati, la teoria che vorrebbe formalizzare la situazione con la definizione di “cerchi concentrici”. La prospettiva secondo cui l’integrazione può progredire con la progressiva formazione di “cluster” su determinate politiche, beninteso attorno al nucleo comune del mercato unico, è quindi realista e metodologicamente attraente.
Uno dei vantaggi è la grande flessibilità. Il processo può cominciare con iniziative di un numero limitato di Paesi anche in modo molto informale, per poi estendersi e strutturarsi. Si tratta però di iniziative che diventano significative e possono ambire a diventare l’embrione di una “politica europea”, solo nel momento in cui raccolgono potenzialmente l’adesione della maggioranza di Paesi membri. L’informalità del processo è facilitata dal fatto che in molti campi suscettibili di diventare un “cluster”, per esempio la politica estera e la sicurezza, molto può essere fatto senza ricorrere a vincoli formali. Il problema si pone quando le cose progrediscono e diventano più strutturate e vincolanti. A quel punto i “cluster” interferiscono fra loro e con il mercato unico che si suppone sempre a 27.
Contrariamente a ciò che alcuni pensano, l’esigenza di nuovi progressi dell’integrazione non nasce autonomamente come astratto desiderio di “più Europa”, ma è più spesso il prodotto dell’effetto di fattori esterni sul funzionamento del mercato unico. L’esempio tipico è l’euro, al momento il “cluster” più importante e più compiuto. Esso è certo un progetto politico, ma è stato soprattutto motivato dalla percezione dell’insostenibilità del mercato unico in una situazione di disordine monetario. L’esigenza di una maggiore coesione in materia di politica estera e di sicurezza ha origini molteplici, ma non può facilmente essere distinta dalla politica economica esterna che è largamente competenza dell’Ue in quanto tale. La coesistenza di cluster fra loro e con l’Ue a 27 deve quindi essere gestita politicamente. È importante che tutto questo variegato insieme di configurazioni geografiche e regimi giuridici sia in qualche modo governato da un sistema istituzionale unico, evitando per quanto possibile istituzioni separate.
La riluttanza di alcuni Paesi a unirsi a nuovi capitoli dell’integrazione dipende da diverse percezioni dell’interesse nazionale, ma più spesso da una accentuata riluttanza a condividere nuovi pezzi di sovranità. La tensione si manifesta quando i membri del “cluster”, maggioritari in seno all’Ue, sono tendenzialmente tentati di prendere decisioni che possono danneggiare interessi importanti di Paesi che non ne fanno parte.
Non è una questione teorica. Il risultato del referendum sulla Brexit fu determinato da fattori identitari che prescindevano da considerazioni di merito. Tuttavia la fase precedente fu caratterizzata da una crescente tensione fra i paesi dell’euro-zona e il Regno Unito, dovuta al non assurdo timore di quest’ultimo che l’euro-zona imponesse decisioni contrarie agli interessi della piazza finanziaria di Londra al fine di privilegiare l’obiettivo di rafforzare la moneta unica. La conclusione che se ne può trarre è che, indipendentemente dall’esistenza o meno di opting out, la non appartenenza all’euro è possibile anche a lungo per Paesi il cui peso economico è marginale o che accettano di fatto di adeguare la loro politica monetaria a quella della Bce, ma non per un grande Paese che ha della propria indipendenza e sovranità una concezione non solo formale.
Molti di questi problemi possono essere tenuti a bada forse per lunghi periodi con manifestazioni di pragmatismo. È probabilmente il caso dei Paesi scandinavi, il cui senso identitario è un serio ostacolo a cessioni di sovranità, ma che sono in generale capaci di trovare forme utili di collaborazione. La questione diventa molto più complicata quando intervengono questioni di valore. Il guaio è che, contrariamente agli interessi, i valori non si negoziano.
È la ragione per cui le tensioni nord-sud sono più facili da gestire di quelle est-ovest. La questione riguarda, anche se in modo diverso, tutti i paesi dell’est e dei Balcani: dal nazionalismo esasperato di Polonia e Ungheria alla difficoltà di integrare pratiche democratiche per Paesi che sono rimasti per secoli ai margini del tormentato processo che, dal Rinascimento, alla Riforma, all’illuminismo e alla rivoluzione industriale ha portato la parte occidentale dell’Europa ad assimilare la democrazia liberale. Lo stesso vale in prospettiva per i Balcani occidentali. D’altro canto, basta uno sguardo frettoloso alla carta geografica per capire che la loro appartenenza all’Ue è un nostro prioritario interesse geopolitico. Per fare un esempio, concepire una politica nei confronti della Russia senza coinvolgere la Polonia e i Baltici non avrebbe senso e sarebbe velleitario.
Resta una questione importante, particolarmente rilevante per il dibattito italiano. Il metodo dei “cluster” consacra la presenza centrale dei governi nel sistema europeo. Molti, soprattutto in Italia, hanno sempre pensato che, sia pure nel modo disordinato che conosciamo, il processo di “unione sempre più stretta” consista in un graduale progresso verso una forma di federazione. È venuto il momento di constatare due cose. La prima è che nel tempo l’unione ha fatto passi da gigante. La seconda è che, probabilmente in modo irreversibile, lo sviluppo non è in direzione di un sistema federale. Si è infatti nel tempo creato un sistema istituzionale e un modello d’integrazione che, con buona pace dei fautori dell’Europa delle patrie, è comunque basato su una progressiva condivisione di sovranità; in esso però il ruolo dei governi e quello delle istituzioni comuni sono indissolubilmente legati fra loro. Questa interdipendenza fra i due livelli istituzionali non accenna a diminuire ed è resa inevitabile dalla struttura di un Unione che opera costantemente alla frontiera delle proprie competenze e dei propri poteri. Per fare un esempio dirimente, è impossibile che il Consiglio, organo geneticamente esecutivo, si trasformi in Senato federale. Non è del resto un caso se l’unica istituzione genuinamente federale, la Bce, è estranea alla sfera politica.
Non è una prospettiva priva di inconvenienti e pericoli. Per cominciare, è difficilmente comprensibile da parte dei cittadini. Inoltre il sistema è intrinsecamente instabile e comporta il rischio costante, come si è visto durante la pandemia, di ripresa in mano delle prerogative nazionali da parte dei governi. Ne discende anche il rischio difficilmente eliminabile di conflitti fra le Corti nazionali e la Corte di Giustizia, di cui si vedono alcune avvisaglie. Ciò non vuol dire che il sistema non possa e non debba evolvere; in particolare che sia reso più leggibile, efficiente e sia accresciuta la sua legittimità democratica. È però difficile immaginare che, tranne crisi maggiore, la sua natura possa cambiare. Essa è fondata su due principi operativi. Le decisioni strategiche e le relative condivisioni di sovranità spettano ai governi (sia pure con la crescente partecipazione del Parlamento europeo), ma d’altro canto nulla succede in pratica se l’esecuzione non è affidata a istituzioni comuni. Ciò rende alla fine inutile e superata la tradizionale discussione sul modello intergovernativo o comunitario. Come il gatto di Schrödinger, il sistema può essere a seconda dei casi comunitario o intergovernativo, ma più spesso entrambi contemporaneamente. Alla fine, però, ciò che si chiede al gatto è di acchiappare i topi.
Foto di copertina ANSA/ EPA/ROBERT GHEMENT