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Il documento congiunto

La destra dei “patrioti” e il futuro dell’Europa

6 Lug 2021 - Gianni Bonvicini - Gianni Bonvicini

Uno show, una prova di forza dei partiti di destra europei a Bruxelles ha sollevato non poche preoccupazioni nei circoli politici dell’Ue. In sedici, provenienti da diversi Paesi dell’Unione, hanno firmato una dichiarazione sul futuro dell’Europa predisposta dalla francese Marine Le Pen. In essa si ribadiscono temi noti della destra: il valore delle tradizioni nazionali, il rispetto della cultura di ciascun Paese, la custodia gelosa della propria storia patria, l’eredità giudaico-cristiana alla base dell’Europa. Soprattutto, si insiste molto sul valore centrale e inalienabile della famiglia nelle nostre società, in funzione di doppio baluardo, sia di fronte all’estendersi dei movimenti minoritari Lgbtqi+, sia come fattore demografico necessario a porre freno all’immigrazione.

Ma se la declinazione di questi concetti lascia un po’ il tempo che trova, a creare disagio è piuttosto il disegno di un anti-europeismo un po’ stantio, ma sempre pericoloso. Il ritorno prepotente al concetto di nazione come unico elemento di legittimazione democratica e di potere arriva infatti in un momento di profonda trasformazione dell’Unione europea, che con Next Generation EU sta faticosamente cercando di fare progredire l’integrazione del nostro continente. Integrazione, è bene ricordare, che da quasi 71 anni – dai tempi della Ceca nel 1952 – aggiunge mattone a mattone per raggiungere un modello di cooperazione, che dai settori economici si muova gradualmente verso un assetto politico e istituzionale sempre più stabile.

Per raggiungere questi obiettivi l’Ue ha utilizzato una doppia politica: da una parte, il progressivo passaggio di politiche e competenze nazionali a Bruxelles e, dall’altra ben sei successive modifiche dei trattati per adattare i meccanismi decisionali alle nuove esigenze e attività comuni. Tutto ciò è negato da questo sedicente “movimento dei patrioti europei”, che rimette in questione due cardini dell’agire in comune. Da una parte, la priorità del diritto comunitario su quello nazionale nelle aree di competenza dell’Ue, attribuendo quindi alle Corti costituzionali di ciascuno stato il diritto di respingere tale preminenza. Dall’altra il rifiuto del voto a maggioranza qualificata a favore di un’unanimità di tutti i 27 Paesi su ogni decisione.

Insomma questi “patrioti”, che di europeo hanno ben poco, vogliono con tutta evidenza rovesciare il cammino dell’integrazione europea a favore di un ritorno ad una cooperazione “leggera”, che risponda unicamente agli interessi di ciascun Paese nei soli casi in cui essi riescano a coincidere. È abbastanza evidente come formule di questo tipo siano destinate a fare fallire l’Unione. Basti ricordare come si sono comportati i governi europei allo scoppio della pandemia. Ciascuno si è mosso per proprio conto, magari chiudendo le frontiere e bloccando le spedizioni di materiale medico, dalle mascherine ai respiratori, fra i Paesi dell’Unione.

Cinicamente la colpa veniva attribuita alla Commissione, che non era in grado di reagire: ma non lo era per il semplice motivo che su queste materie non aveva alcuna competenza. Diversa la musica quando Bruxelles ha invece deciso di sostenere la disastrata economia post-Covid dei 27. Il lancio del Recovery Plan, in un campo dove l’Ue ha competenze e meccanismi decisionali adatti, ha dimostrato come un forte intervento comune possa cambiare in positivo la prospettiva futura della nostra economia e società. Proprio su questo coraggioso tragitto si è andata anche ad innestare l’iniziativa della Commissione della Conferenza sul Futuro dell’Europa, che intende proporre ai nostri governi più Unione e non meno, come pretendono invece le forze sovraniste.

Ma al di là delle apparenze di compattezza, lo show dei “patrioti” nasce anche da una serie di debolezze politiche. L’iniziativa è stata infatti presa da Marine Le Pen proprio all’indomani del suo grande fallimento alle elezioni regionali in Francia. L’Ungheria di Viktor Orbán, che prosegue imperterrito sulla sua strada liberticida con l’ultima legge anti-Lgbtqi+, comincia ad avvertire l’emergere di una forte opposizione, sia a livello di municipi che nazionale. In Polonia l’ex presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, ha deciso di guidare un’opposizione sempre più agguerrita al governo anti-comunitario del PiS. In Austria il partito di estrema destra Fpö assiste imbarazzato all’apertura del processo per corruzione al suo ex leader Heinz-Christian Strache. In Italia Matteo Salvini sta al governo, Giorgia Meloni in minoranza e al Parlamento europeo i due si collocano in gruppi diversi e in competizione fra di loro: rispettivamente Identità e Democrazia e Conservatori e riformisti (di cui la leader di Fratelli d’Italia è anche presidente).

Insomma, come si riconosce al termine del manifesto iniziato da Le Pen, il documento rappresenta solo una base comune di lavoro e non tocca l’appartenenza dei firmatari ai diversi gruppi politici. Ma certo questo segnale politico non dovrà essere sottovalutato, soprattutto in questo frangente di potenziale grande trasformazione dell’Unione. I nostri governi, a cominciare da quello italiano, sono avvertiti: il Recovery Plan dovrà dimostrare concretamente che l’Unione serve a tutti e che è irrinunciabile. Perciò esso va affrontato con rigore e coraggio.

Foto di copertina EPA-EFE/Fabio Frustaci