Tra Putin e Orbán, l’ultimo Consiglio europeo di Merkel
Quello del 24-25 giugno a Bruxelles – al termine di un mese pieno di summit – è stato l’ultimo Consiglio europeo di Angela Merkel. O, perlomeno, lo è stato sulla carta, visto che al prossimo Vertice in calendario a ottobre, la cancelliera potrebbe sì ripresentarsi, ma come capo del governo federale ad interim, nell’attesa dello svolgimento dei negoziati per la formazione della maggioranza alla luce del risultato delle urne del 26 settembre.
E, forse, non è stato il Vertice che Merkel desiderava per l’uscita di scena, visto che il punto in agenda introdotto all’ultimo minuto prima del Vertice dalla Germania e dalla Francia – quello, cioè, di una graduale ripresa diplomatica dei summit con la Russia di Vladimir Putin (interrotti dopo l’invasione della Crimea nel 2014) – è stato sgombrato dal tavolo dai colleghi del Consiglio europeo. Alcuni anche con toni fermi, come ad esempio i Baltici (“Mosca conosce soltanto il linguaggio della forza”).
Non ha avuto maggior successo il punto all’ordine del giorno sulle migrazioni: richiesto dal premier Mario Draghi, si trattava della prima volta in tre anni che il tema tornava al centro di un Consiglio. Nelle conclusioni del Vertice si è tradotto in un impegno a cercare la cooperazione con i Paesi di origine e transito, ma la discussione è andata avanti per meno di dieci minuti. Voglia di non alterare troppo i flebili equilibri sul tema fra i Paesi Ue, né di aprire il vaso di Pandora dei ricollocamenti obbligatori. Il lavoro diplomatico continua sottotraccia, e la strada di accordi fra gruppi di Paesi – come ricordato da Draghi al termine del Vertice, con la mente a Parigi e Berlino – rimane sul tavolo.
La legge ungherese
Insomma, sui flussi migratori non s’è consumata la battaglia che qualcuno temeva. Anche perché la vera bomba è arrivata con un fuori programma, cioè la legge anti-Lgbt approvata poco più di una settimana fa in Ungheria e ratificata dal presidente della Repubblica proprio poche ore prima dell’inizio della riunione. E all’Europa Building è stato un “tutti contro Viktor Orbán“. Sin dall’arrivo a Bruxelles i vari capi di Stato e di governo hanno condannato il provvedimento di Budapest che proibisce la diffusione di materiale informativo sull’omosessualità, l’identità di genere e la riassegnazione del sesso nelle scuole e fra i minori.
Ad alzare i toni dello scontro è stato il premier olandese Mark Rutte: “La possibilità di uscire dall’Ue è contemplata nei Trattati per una ragione”, avrebbe detto a muso duro all’indirizzo di Orbán; insomma, se l’Ungheria non intende aderire ai valori europei può seguire le orme del Regno Unito e andarsene. L’Huxit dopo la Brexit: “Se Orbán non fa un passo indietro non ha più un posto qui in mezzo a noi”, aveva spiegato l’olandese prima dell’inizio della discussione, pur riconoscendo “che non possiamo cacciarlo” né espellere il Paese. Molto più cauti altri leader, attenti a non far passare il messaggio per cui Bruxelles o le capitali identifichino Orbán con l’Ungheria. “L’Ungheria ha 10 milioni di ragioni (tante quanti i suoi abitanti, ndr) per rimanere nell’Ue”, ha provato a parare il colpo la presidente della Commissione Ursula von der Leyen.
Il nodo condizionalità
Il presidente del Parlamento europeo David Sassoli, da parte sua, ha ricordato che gli strumenti giuridici per chiamare il governo di Budapest a rispondere delle sue politiche liberticide ci sono già. E fanno parte del corredo di misure adottate con l’approvazione del nuovo quadro finanziario pluriennale dell’Unione europea, che comprende anche il Recovery Plan Next Generation EU. Si tratta del meccanismo che condiziona l’erogazione dei fondi Ue al rispetto dello stato di diritto e delle libertà fondamentali: era stato il pomo della discordia nell’ultimo miglio dell’iter di approvazione del piano per la ripresa, quando Ungheria e Polonia minacciarono di far saltare tutto e i più pessimisti pensarono all’eventualità di una cooperazione rafforzata per realizzare la ripresa Ue.
Poi la promessa della Commissione (giuridicamente non vincolante) a render possibile il compromesso: Bruxelles non avvierà alcuna procedura di infrazione nel quadro del meccanismo prima che la Corte di Giustizia abbia la possibilità di pronunciarsi sulla legittimità dello schema, sulla base dei ricorsi presentati da Budapest e Varsavia. Un ossequio di troppo non andato giù a molti leader degli Stati membri, e men che meno al Parlamento europeo. Sassoli, infatti, oggi dà battaglia, ricordando una recente posizione adottata dall’Aula: “Se l’inazione della Commissione dovesse continuare siamo pronti ad portarla davanti alla Corte di Giustizia”.
Ma a Budapest non hanno intenzione di fare passi indietro e anzi cercano lo scontro frontale. “È legge ungherese”, ha detto candidamente Orbán a chi gli chiedeva lumi sulla possibilità di ritirare un provvedimento “che – secondo l’uomo forte di Budapest – non è stato capito”. E se il premier belga Alexander de Croo s’è presentato al Vertice con la spilla rainbow al petto, a dare il benvenuto a Orbán a Bruxelles, mercoledì sera, era stato il centro storico della capitale illuminato d’arcobaleno, quello stesso gioco di luci che l’Uefa aveva vietato all’Allianz Arena di Monaco per il match fra la nazionale tedesca e quella magiara.
Alla vigilia del meeting, i leader dei 16 Paesi Ue si erano rivolti con una lettera congiunta ai vertici delle istituzioni Ue per ricordare che “dobbiamo continuare a combattere contro le discriminazioni ai danni della comunità Lgbt”. Fra i firmatari anche Mario Draghi: e palazzo Chigi – toccata in questi giorni dalle polemiche sulle critiche del Vaticano al ddl Zan – condivide sui propri social il testo: “Odio, intolleranza e discriminazione non hanno posto nella nostra Unione”.
EPA/ARIS OIKONOMOU / POOL