Messico: un referendum di metà mandato per López Obrador
Falso messia, messia tropicale, chávista, radicale. Sono solo alcuni degli epiteti con cui la stampa nazionale ed internazionale ha definito il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador, meglio noto come Amlo, che domenica 6 giugno affronterà il banco di prova delle elezioni di midterm.
Questa tornata elettorale sarà la più grande della storia messicana poiché verranno rinnovati 500 seggi della Camera dei deputati, 15 su 32 governatori statali e circa il 40% dei sindaci, mentre due Stati rinnoveranno per intero i parlamenti locali.
Non sarà una passeggiata per Amlo. Nel 2018 la sua coalizione “Junto Haremos Historia” vinse le elezioni federali con un risultato storico, ottenendo oltre il 53% delle preferenze. Difficilmente Amlo riuscirà a replicare un tale successo, considerando che queste elezioni sono un referendum sulla sua persona e che nella prima metà del mandato López Obrador, con le sue politiche populiste con tendenze autoritarie, ha inasprito i conflitti tra gruppi sociali, politici ed economici.
La quarta trasformazione
Amlo ha definito il suo programma politico la “Quarta Trasformazione”, mostrando la sua volontà di cambiare radicalmente gli equilibri di forza nel Paese. Uno dei primi provvedimenti del suo governo è stato lo smantellamento delle agenzie pubbliche (fideicomisos) per la ricerca, l’ambiente, la protezione dei diritti umani e per la cooperazione internazionale, oltre a programmi per lo sviluppo sociale come Prospera e ProMéxico, dei quali il Paese ha enorme bisogno. Anche dei programmi di appoggio ai campesinos, sono stati sostituiti con aiuti finanziari diretti elargiti dal governo centrale.
È evidente che questa scelta, motivata dal taglio agli sprechi, non porterà alcun beneficio e che il risparmio sarà esiguo. Inoltre, lo smantellamento del sistema di sviluppo sociale, seppur fallace e corrotto, lascia il Messico in balìa di problemi strutturali come le disuguaglianze, l’accesso all’educazione, la mancanza di diritti del lavoro, la violenza di genere e il razzismo.
A livello istituzionale, López Obrador ha dichiarato guerra all’Ine (“Instituto Nacional Electoral”), l’organo indipendente che monitora i processi democratici nel paese. L’obiettivo di Amlo è di riportare il controllo del processo elettorale sotto il governo centrale. Una mossa pericolosa che in passato ha permesso enormi frodi elettorali, come nel caso delle presidenziali del 1988 vinte da Carlos Salinas de Gortari.
L’agenda economica
Un’altra battaglia del presidente è riportare la banca centrale sotto il controllo del governo, sostituendo uomini chiave con persone da lui definite “oneste”, nella fattispecie dei suoi fedelissimi. Non è la prima volta che Amlo compie questo tipo di operazioni, con risultati molto spesso disastrosi. I nuovi manager hanno dimostrato spesso una certa incompetenza e causato enormi danni alle casse dello stato, come nel caso dell’impresa petrolifera Pemex o come nel caso del figlio del presidente della Cfe (“Comisión Federal de Electricidad”) accusato di frode.
In ambito economico, Amlo ha ereditato un Paese che cresceva al di sotto delle proprie possibilità (in media sotto il 3% con il presidente Enrique Peña Nieto). La sua cura ha avuto l’effetto di aggravare ulteriormente l’andamento economico. La ricetta di López Obrador per lo sviluppo consiste nel puntare su pochi piani di investimento come il nuovo aeroporto di Città del Messico (“Aeropuerto Felipe Ángeles”), il Tren Maya e le raffinerie di Dos Bocas (Tabasco) e Deer Park (Texas).
Le criticità di questo approccio sono molteplici. Gli appalti non trasparenti, i militari massicciamente inseriti nella realizzazione dei progetti e l’ostinata predilezione per il settore petrolifero, mostrano una concezione di politica economica superata, rimasta agli anni ‘70.
Inoltre, c’è da considerare che i pochi piani strategici di Amlo diffcilmente porteranno qualche beneficio a livello nazionale, poiché il governo non ha un vero e proprio piano di sviluppo intersettoriale.
“Abbracci, non proiettili”
A livello di sicurezza, López Obrador ha adottato quella che lui stesso ha definito la politica di “abbracci, non proiettili”, cioè l’abbandono della politica di scontro aperto con i cartelli della droga. Questo ha portato a una riduzione della conflittualità tra narcos e governo centrale, ma ha causato un aumento della conflittualità tra cartelli e tra cartelli e forze di sicurezza locali.
Tra il 2015 e il 2017, il numero di omicidi in Messico è aumentato drammaticamente. Amlo è riuscito a fermare l’escalation, ma non è riuscito a riportare il dato sotto i livelli pre-crisi. Nel 2018, quando López Obrador ha vinto le elezioni, il numero di omicidi era di 33,740, mentre nel 2020 il dato è stato 33,454, con un tasso medio di 25 ogni 100.000 abitanti (40 volte superiore all’Italia).
Da aprile a oggi, si sono registrati 79 omicidi politici, rendendo queste elezioni le più violente della storia messicana recente. Il motivo di questo aumento della violenza sta nella volontà dei narcos di infiltrarsi nei processi elettorali per garantirsi il controllo delle amministrazioni locali, da cui dipendono gli organi di polizia che operano a più stretto contatto con i narcos stessi.
Negli ultimi anni i due maggiori cartelli, il “Cártel de Sinaloa” e il “Cártel Jalisco Nueva Generación”, si sono alleati con dei cartelli locali creando delle vere e proprie coalizioni. Attualmente, queste coalizioni sono in guerra tra loro per il controllo del territorio messicano. Un caso emblematico di questa guerra è lo stato di Michoacán, dove il conflitto ha portato la regione a scenari da guerra civile.
Il risultato di queste elezioni sarà determinante per il Paese. Le politiche di Amlo hanno fallito su quasi tutta la linea. Tuttavia, la coalizione dell’opposizione “Va por México” composta da partiti di destra (Pan), centro (Pri) e sinistra (Prd), non ha un vero programma politico alternativo.
Foto di copertina EPA/JOSE MENDEZ