L’Iran è dell’ultraconservatore Raisi, ma sul nucleare non c’è alternativa al dialogo
TEHERAN. Nessuna sorpresa dell’ultima ora è uscita dalle urne iraniane: l’ultraconservatore Ebrahim Raisi è stato eletto ottavo presidente della Repubblica islamica dopo che gli era stata spianata un’autostrada verso la vittoria con la bocciatura da parte del Consiglio dei Guardiani di tutti i maggiori rivali, non solo nel campo riformista ma anche in quello conservatore. L’esclusione più clamorosa era stata quella di Ali Larijani, ex presidente del Parlamento ed ex negoziatore sul nucleare, da decenni vicino al nocciolo duro del potere.
Ma il dato più importante, sul quale le opinioni divergono e che farà discutere ancora a lungo, è il tasso di partecipazione, vero termometro per misurare la reazione popolare davanti a un’operazione come questa che lascia intravedere la volontà di restringere ancor più la cerchia del potere intorno alla Guida suprema, Ali Khamenei. Il ministero dell’Interno ha detto che a votare si è recato il 48,8% degli aventi diritto. Pur trattandosi del minimo storico per una consultazione presidenziale, il dato non sembra concretizzare l’incubo di un’astensione di massa che sembrava profilarsi per il malcontento popolare dovuto all’esclusione di tutti i maggiori candidati alternativi e alla povertà dilagante, in gran parte dovuta alle sanzioni americane ma imputata anche alla corruzione e al malgoverno. Nella capitale Teheran l’astensione ha raggiunto un picco del 74%.
Gruppi e personalità dell’opposizione all’estero, tra cui i Mojaheddin del Popolo e l’ex principe ereditario del regime monarchico Reza Pahlavi, avevano promosso una campagna per il boicottaggio. All’interno dell’Iran l’astensione era stata la forma di protesta scelta da importanti personalità del campo riformista, come l’ex primo ministro ed ex leader del movimento di protesta dell’Onda Verde Mir Hossein Mousavi e Faezeh Hashemi, figlia del defunto ex presidente Akbar Hashemi Rafsanjani.
Il dato dell’affluenza
Gli oppositori hanno detto di non credere al dato ufficiale sulla partecipazione, che ritengono gonfiato. Del resto bisogna anche tenere conto di quella parte di elettori – come i dipendenti o statali o i beneficiari di sovvenzioni – che si sono sentiti costretti ad andare alle urne per evitare possibili ritorsioni, scegliendo poi di votare scheda nulla o bianca. E la percentuale totale di queste schede ha toccato quasi il 13%. Un importante quotidiano riformista, Arman-e Melli, ha invitato Raisi a “lavorare per guadagnare la fiducia anche del 70%” che non ha votato, ha votato il candidato moderato Abdolnasser Hemmati, o ha votato scheda bianca o nulla.
Raisi è stato eletto con il 61,9% delle preferenze. Ma per vincere, proprio grazie alla scarsa affluenza, gli sono bastati 17,9 milioni di voti, rispetto ai 23,6 milioni raccolti quattro anni fa dal presidente Hassan Rouhani, che aveva battuto proprio Raisi in una consultazione che aveva visto una partecipazione del 73,3%. Molto distanziati gli altri tre candidati lasciati in gara dopo la falcidia operata dal Consiglio dei Guardiani: il conservatore Mohsen Rezai, ex comandante delle Guardie della Rivoluzione, che si è fermato all’11,7%, il moderato Hemmati, appunto, che ha incassato un modesto 8,3%, e il deputato conservatore Hassan Ghazizadeh Hashemi, che ha raggranellato un 3,4%.
Tra le più importanti conseguenze sul piano politico interno è stata la traumatica spaccatura nel campo riformista e moderato, tra chi ha sostenuto comunque la necessità di andare alle urne, facendo convergere la preferenza su Hemmati, attuale governatore della Banca centrale, e chi ha portato avanti la linea dell’astensione. Molte anche le ambiguità. L’ex presidente riformista Mohammad Khatami, ad esempio, in un primo messaggio a ridosso delle elezioni si era astenuto dal chiedere ai suoi seguaci di partecipare al voto. Poi in un secondo messaggio li ha invitati a recarsi alle urne.
Il futuro del Jcpoa
Sul piano internazionale tutte le attese sono per vedere quale sarà la politica del nuovo esecutivo di un presidente che si presenta come un fondamentalista fedele seguace della Guida suprema, che più volte ha criticato l’accordo sul nucleare (Jcpoa) concluso nel 2015 dall’amministrazione Rouhani, dal quale gli Usa del presidente Donald Trump sono usciti nel 2018 reimponendo pesanti sanzioni a Teheran. Trattative sono in corso da settimane a Vienna per il rientro di Washington in quell’intesa e la revoca delle sanzioni contro Teheran. Ma il neo-primo ministro israeliano Naftali Bennett ha affermato che l’elezione di Raisi è “un campanello d’allarme” per il mondo intero e per l’Occidente questa potrebbe essere l’ultima occasione per “capire con chi ha a che fare” prima di ritornare “all’accordo sul nucleare”. Invece, nella sua prima reazione, il Dipartimento di Stato americano ha fatto sapere di volere continuare i negoziati sul nucleare anche con il governo guidato da Raisi.
Una riunione dei negoziatori si è tenuta a Vienna domenica, il giorno dopo l’elezione del nuovo presidente, prima di una nuova interruzione per il rientro dei partecipanti nelle rispettive capitali per consultazioni. Il capo negoziatore iraniano, Abbas Araghchi, ha affermato che “tutti i documenti sono pronti” per arrivare ad un’intesa, che a suo parere non sarebbe mai stata così vicina. Ma ha aggiunto che sono le controparti a a dover fare un ulteriore sforzo per chiudere la trattativa. Forse un tentativo di fare pressioni per ottenere ulteriori concessioni facendo leva sui timori che il governo Raisi, che si insedierà il 3 agosto, possa adottare una posizione più intransigente. Anche il presidente uscente Rouhani ha detto di sperare che entro quel giorno sia possibile arrivare ad un accordo. Se non ci riuscirà, la palla passerà al suo successore.
Ma a Teheran sono in molti a pensare che, nonostante la sua fama di fondamentalista, anche Raisi dovrà seguire la strada obbligata del dialogo per cercare di porre rimedio alla drammatica crisi economica.
Foto di copertina EPA/ABEDIN TAHERKENAREH