I limiti dell’approccio italiano in Libia
La Libia si trova a uno snodo cruciale della propria storia dopo la fine del regime di Muammar Ghaddafi a seguito dell’intervento militare a guida Nato del 2011. Dopo dieci anni di conflitto quasi ininterrotto, la divisione del Paese e delle sue istituzioni e l’escalation militare lanciata dal Generale Khalifa Haftar nel tentativo di conquistare Tripoli tra aprile 2019 e l’estate del 2020, la Libia sembra ora aver voltato pagina.
Con l’insediamento, a metà marzo 2021, del Governo di unità nazionale guidato da Abdul Hamid Dabaiba – reso possibile grazie al blocco dell’offensiva di Haftar da parte della Turchia, al raggiungimento e mantenimento del cessate il fuoco permanente e alla ripresa dei negoziati sotto l’egida delle Nazioni Unite nel quadro del Libyan Political Dialogue Forum (Lpdf) – la Libia guarda con cauto ottimismo al proprio futuro.
Nonostante ciò, le sfide – sia nel breve che nel medio-lungo periodo – restano ingenti e la mera creazione del nuovo governo non garantisce automaticamente la buona riuscita della transizione in un Paese dilaniato e impoverito da un decennio di conflitti (nonostante la ricchezza derivante dallo sfruttamento delle risorse petrolifere), frammentato da logiche di potere locale che continuano a essere alimentate da pressioni e interferenze esterne, alle prese con la necessità di ricostruire le proprie istituzioni in maniera credibile e legittima, e che tenta di tenere a bada le agende concorrenti degli attori esterni rispondendo – allo stesso tempo – in maniera adeguata alle sfide della pandemia di Covid-19.
Segnali di cauto ottimismo e un rinnovato sostegno alla Libia provengono anche dalla comunità internazionale e in particolare dai Paesi europei per i quali la ripresa del dialogo, dei negoziati e della transizione verso le elezioni calendarizzate per il 24 dicembre 2021 rappresentano buone notizie. La Libia continua a essere una priorità di politica estera per molti Stati membri dell’Unione europea e per l’Italia in primis per una serie questioni cruciali che vanno dalla gestione delle migrazioni irregolari che transitano attraverso il Paese nordafricano dirette in Europa all’impatto della fragilità libica sulle dinamiche securitarie nel Sahel.
La battaglia delle narrative
Di fronte a tali sfide, il decennio precedente ha visto molte occasioni mancate da parte dei Paesi europei, e più specificatamente dell’Ue, di articolare e implementare una vera e propria politica estera comune nei confronti della Libia a causa dell’incoerenza delle varie posizioni nazionali e della mancanza di strumenti e di azioni proattive. Alla base di ciò vi è l’acuta mancanza di una narrativa europea comune sulla Libia non solo tra gli addetti ai lavori ma anche tra il pubblico in generale.
Poi ci sono le narrative nazionali, in particolare di Francia, Germania e Italia, ovvero i tre Paesi europei che sono più attivi sul dossier libico a livello bilaterale e in sede europea. Tra di esse vi è una condivisione di fondo dell’analisi dei problemi e delle sfide ma differenti soluzioni proposte. Mentre per la Francia il nodo cruciale è la sicurezza della Libia, nell’ottica – ora in fase di profonda revisione – della stabilizzazione del Sahel, e per la Germania il cavallo di battaglia è la diplomazia (siamo alla vigilia della seconda conferenza sulla pace in Libia che si tiene il 23 giugno), il vantaggio comparativo per l’Italia è l’economia. La narrativa e le azioni di Roma sulla Libia da sempre cercano di sfruttare gli incentivi economici come sostituti della politica nel tentativo di affrontare la principale sfida che proviene dal Paese nordafricano, ovvero quella delle migrazioni irregolari.
I collegamenti tra i due dossier economico e migratorio affondano le loro radici nel passato delle relazioni tra Italia e Libia, si basano sulla presenza in quest’ultima di operatori economici italiani di spicco, a partire dall’Eni fin dai tempi di Enrico Mattei, e si nutrono grazie alla spiccata conoscenza da parte dei rappresentanti delle istituzioni italiana più del milieu del business che di quello della politica in Libia. Testimonianza concreta di questi collegamenti tra i due dossier si rintracciano anche nel Trattato Italia-Libia di amicizia, partenariato e cooperazione del 2008.
Oggi, dopo l’auto-isolamento dell’Italia sullo scacchiere libico degli ultimi tre anni, si riscontra da parte di Roma il netto tentativo di rinnovare l’attivismo in campo economico con l’obiettivo di mantenere e anzi guadagnare nuove posizioni tra gli sponsor del governo di unità nazionale. La centralità delle figure del mondo imprenditoriale, a partire dal primo ministro, nel nuovo governo libico e delle priorità dello stesso in campo economico sembrerebbero giustificare tale approccio economicista. Sebbene l’Italia abbia perso quote di mercato relative in Libia a causa della forte competizione di Turchia, Russia e anche Cina, i rapporti economici restano solidi e le opportunità di ulteriore espansione notevoli, come sottolineato dal presidente del Consiglio Mario Draghi in occasione della sua prima visita all’estero proprio in Libia a inizio aprile 2021, soprattutto nei settori energetico e infrastrutturale (aeroporto di Tripoli, autostrada costiera). Sul versante delle migrazioni, i primi cinque mesi del 2021 hanno visto l’arrivo sulle coste italiane di circa 14mila migranti irregolari dalla Libia, un numero tre volte superiore rispetto all’anno precedente.
I punti deboli dell’approccio italiano
Nonostante questi elementi a favore, l’approccio iper-economicista dell’Italia solleva due problemi: il primo circa l’efficacia degli strumenti e il secondo circa i tempi. Il tentativo dell’Italia di recuperare il terreno perso puntando esclusivamente sull’economia potrebbe rivelarsi più complicato e fragile del previsto vista l’incertezza e le lotte interne per il potere e il controllo delle principali istituzioni economico-finanziarie in Libia. Vi è anche l’aspetto della pressante competizione da parte di altri attori, Turchia in primis. Se l’obiettivo è quello di ridare smalto alla diplomazia economica italiana, la cosa può funzionare nel breve periodo e la ristrutturazione dell’economia libica rappresenta certamente una priorità fondamentale per il Paese e la base necessaria per una stabilizzazione sostenibile nel lungo termine.
Tuttavia, la storia della cooperazione con la Libia non è in ultima istanza caratterizzata dalla mancanza di scambi commerciali o dall’assenza di cooperazione allo sviluppo: manca ancora, invece e in via prioritaria, una visione della gestione del conflitto e del post-conflitto che tenga conto della complessità e interdipendenza delle sfide alla sicurezza umana. Ben vengano agende economiche ambiziose e reattive ma in assenza di un approccio di cooperazione olistico che colleghi sviluppo, sicurezza e sostenibilità i risultati sono destinati a essere precari o, nel caso peggiore, controproducenti a causa dell’instabilità politica, della corruzione e del mancato rispetto di principi di base, quali i diritti umani. In un simile contesto, lo sforzo di un solo Paese partner, come l’Italia, per quanto importante esso possa essere, non sarà sufficiente.
La questione dei tempi ci riporta, inoltre, alla cornice della politica europea comune sulla Libia. Ad oggi, la convergenza tra le politiche estere dei principali Paesi europei nei confronti della Libia sta avvenendo ancora solo sulla carta o nelle dichiarazioni pubbliche. Permangono importanti differenze, cosa che sarebbe di per sé un valore aggiunto se esse fossero utilizzate per dare slancio a una politica estera europea proattiva sulla Libia. Invece, l’Ue nel sul complesso si sta muovendo in maniera estremamente lenta e il coordinamento tra i principali stati membri risulta spesso un passaggio auto-referenziale che non sembra in grado di incidere nel concreto. Quanto tempo sarà necessario per porre rimedio alla mancanza di coesione a livello comunitario sulla Libia nei fatti e quanto tempo ancora potrà ‘concederci’ la Libia prima che sia troppo tardi?
I prossimi mesi saranno decisivi non solo per il Paese e la sua transizione in questa nuova fase ma anche per l’Ue per passare dalle parole ai fatti e favorire al contempo lo sviluppo di una politica estera europea più coerente, coordinata ed efficace su questo dossier nello specifico e più in generale per quanto riguarda il Mediterraneo. Speriamo non sia un’altra occasione persa.
Questo articolo è stato pubblicato nell’ambito dell’Osservatorio IAI-ISPI sulla politica estera italiana, realizzato anche grazie al sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Le opinioni espresse dall’autore sono strettamente personali e non riflettono necessariamente quelle dello IAI, dell’ISPI o del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.