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Il bilaterale a Ginevra

Biden-Putin: una stretta di mano per suggellare relazioni mai così complicate

17 Giu 2021 - Anna Zafesova - Anna Zafesova

“Un dialogo senza distensione”: la definizione del politologo Dmitry Trenin di Carnegie Moscow è molto azzeccata per descrivere l’obiettivo che si poneva il Cremlino per il vertice tra Vladimir Putin e Joe Biden a Ginevra, il 16 giugno. Nessuno a Mosca sperava più in un “big deal”, dopo la delusione di Donald Trump; e i tentativi di “reset” tra Barack Obama e Dmitry Medvedev sono ormai un’imbarazzante ricordo per entrambe le parti.

Nel 2021, nell’ottavo anno del suo isolamento post-Crimea, Putin non sbaglia a definire lo stato delle relazioni russo-americane “al livello più basso della storia”, e infatti i due unici risultati più o meno reali del rapidissimo vertice – il rientro dei rispettivi ambasciatori nelle loro sedi, e una dichiarazione che riconosce la responsabilità comune delle due potenze nucleari per la stabilità strategica – sono il minimo indispensabile, oltre il quale si potrebbe parlare di una guerra nemmeno tanto più fredda.

Le linee rosse
Anche il “meglio guardarsi in faccia” di Biden è stato una constatazione di attese molto limitate: i summit in cui i leader russo e americano facevano a gara ad affascinare l’interlocutore, mostrargli la propria amicizia e sfoggiare la sintonia reciproca appartengono a un passato che sembra ormai quasi impossibile. Già la scelta del territorio neutrale di Ginevra, sede di innumerevoli round di negoziati sovietico-americani dai tempi di Brezhnev a quelli di Gorbaciov, indicava chiaramente che non si trattava di un incontro tra partner o colleghi: era un appuntamento tra nemici, e all’ordine del giorno più che una agenda di cose da fare insieme c’era una lista di “red line” da non oltrepassare.

Il problema è che, tra nemici, non ci sono molti terreni in comune, e la rapidità con la quale il summit si è concluso – meno di tre ore di colloqui, tra faccia a faccia e tavolo allargato alle delegazioni – l’ha dimostrato. Russia e Usa non hanno interessi economici comuni, gli scambi culturali sono praticamente congelati, nei conflitti internazionali si trovano spesso sulle linee del fronte opposte, e Mosca non ha da offrire influenze particolari (anche se Putin si è portato dietro il suo emissario speciale in Siria Alexander Lavrentiev, e quello in Ucraina Dmitry Kozak, forse nella speranza di aprire dei sotto-negoziati regionali).

Un dialogo tra nemici è possibile, ma presuppone compromessi, e pragmatismo nell’ammettere i propri limiti: come ha fatto notare con un certo sarcasmo Biden, “se hai migliaia di chilometri di confine con la Cina, e un’economia debole, non ti metti a fare una guerra fredda”. Forse è stato questo atteggiamento a spingere Putin ad accorciare i tempi dei colloqui, per buttarsi tra le braccia della stampa internazionale in una performance insolitamente lunga, quasi interamente dedicata a ribadire i punti fissi della propaganda russa, e ad accusare gli Stati Uniti di “aver dichiarato per legge la Russia come nemico”.

Propaganda russa
Washington è stata accusata di aver sponsorizzato l’opposizione russa, di “uccidere gente per le strade” nelle città americane e nei raid in Iraq e in Afghanistan, di aver sponsorizzato il “colpo di Stato sanguinario” in Ucraina e di lanciare cyber-attacchi contro la Russia. Parte di queste esternazioni erano il classico “whataboutism” della propaganda ancora sovietica, per ribattere senza rispondere in merito alle critiche sui diritti umani e repressione delle libertà. Altri erano più originali, come il paragone tra il movimento Black Lives Matters e l’opposizione di Alexey Navalny, che nella visione di Putin sono entrambi animati da estremisti criminali: il primo ha “lanciato pogrom per i quali compatiamo il popolo americano” e il secondo “insegnava pubblicamente a fare le Molotov”.

Affermazioni che hanno fatto interrogare molti commentatori sulle fonti di informazioni utilizzate dal presidente russo. Che su Navalny – ostinandosi a non chiamarlo per nome, ma “quel signore” – si è mostrato particolarmente infastidito, accusandolo “essere andato all’estero per cure mediche”, e quindi di essere tornato in Russia pur sapendo quello che lo attendeva: “Ha scelto consapevolmente di venire arrestato, ha ottenuto quello che voleva”. Nessuna menzione dell’avvelenamento, ed è colpa dell’oppositore aver voluto tornare in patria: se è vero, come sostengono alcune fonti moscovite, che Biden e Putin avessero parlato di scambiarlo con detenuti russi negli Usa, la reazione del presidente russo non promette bene per l’esito della trattativa.

Patti chiari, inimicizia lunga
A tratti si era creata l’impressione che per Putin fosse stata più importante la scena mediatica offerta dal summit del summit stesso. D’altra parte, il margine di manovra russo è molto più ridotto di quello americano, e non soltanto per la debolezza economica e geopolitica ribadita gentilmente da Biden: se tutta la propaganda, e tutta la diplomazia, per anni, vengono incentrate sull’antiamericanismo, un “dialogo senza distensione” diventa problematico. L’intransigenza rende impossibile un compromesso, e considerare un vertice soltanto come un’occasione per ribadire di avere ragione non è una tattica promettente. Le “red line” del Cremlino – innanzitutto l’Ucraina nella Nato, come promesso da Biden pochi giorni prima – sono state affrontate solo “di sfuggita”, perché “non c’è nulla da discutere”.

Le “red line” americane sono state enunciate ad alta voce, come la promessa del padrone della Casa Bianca che la morte in carcere di Navalny avrebbe “conseguenze devastanti” per la Russia. I patti sono stati chiari, e l’inimicizia promette di essere lunga.