Gli otto nomi di Biden per rilanciare le relazioni con il Vaticano
Joe Biden fa i conti con lo spoil system americano. Pezzi importanti della nuova amministrazione democratica negli Stati Uniti sono già al proprio posto, ma nelle prossime settimane un numero piuttosto elevato di alti funzionari e ambasciatori saranno esaminati dal Senato per completare la squadra del presidente. Compreso il nuovo diplomatico – o diplomatica – che si occuperà di curare i rapporti tra Washington e la Santa Sede.
In un recente articolo su “America”, la rivista settimanale dei gesuiti statunitensi, Nicholas Sawicki ha indicato otto papabili profili per succedere a Callista Gingrich, ambasciatrice nominata dall’ex presidente Donald Trump nel 2017. Si passa da Elizabeth Bagley, già diplomatica in funzione durante le amministrazioni di Bill Clinton e Barack Obama, a Felice Gorordo e Alexia Kelly. Il primo fu coinvolto nella riapertura dell’ambasciata statunitense a Cuba e nell’organizzazione dello storico viaggio di Francesco sull’isola, mentre la seconda ha lavorato per dieci anni nella Conferenza episcopale americana.
E ancora, tra i candidati ci sarebbero Dan Lipinski, membro conservatore del Partito democratico, l’ex governatore del Maryland Martin O’Malley (per poche settimane terzo incomodo tra Hillary Clinton e Bernie Sanders nel 2016), Kerry Robinson e Stephen Schnek, rispettivamente ambasciatrice della Leadership Roundtable e direttore esecutivo della Franciscan Action Network. Tutti profili di spiccata fede cattolica e tutti aderenti alla campagna mirata dei “Catholics for Biden”, che ha in parte contributo al successo del presidente durante le elezioni dello scorso novembre.
È chiaro, però, che le tensioni interne al cattolicesimo statunitense e tra quest’ultimo e la Chiesa di Roma non si esauriranno con la nomina di un nuovo ambasciatore. Il conflitto silenzioso, deflagrato rumorosamente con l’elezione di Donald Trump – alla quale hanno contribuito anche i cattolici – e incancrenitosi nello scisma all’interno della comunità dei fedeli americani, continuerà. Il nuovo ambasciatore dovrà prenderne atto e cercare, almeno ai massimi livelli, di ricucire lo strappo.
Vaticano-Usa: storia di due imperi
Stati Uniti e Vaticano sono due imperi a vocazione universale con una missione salvifica da compiere. Tanto terrena quella americana, quanto ultramondana quella della Chiesa cattolica. Traiettorie formalmente divergenti che, solo apparentemente, permettono a Washington e Santa Sede di trovarsi d’amore e d’accordo. Cosa che è successa ben poche volte nel corso della storia.
La nascita degli Stati Uniti è di per sé uno strappo. Le guerre religiose in Europa hanno spinto moltissimi immigrati dal Vecchio continente al nuovo mondo. Qui, una volta sistemati, i nuovi americani hanno deciso che la religione non avrebbe potuto e dovuto interferire con la vita politica del Paese. In Vaticano, poi, l’esperimento americano era vissuto con diffidenza: il principio democratico statunitense si scontrava duramente con quello monarchico europeo sul quale la Chiesa, per secoli, si era poggiata. La reciproca sfiducia si riversò anche in ambito domestico. Le violenze in stile Gangs of New York, film di Martin Scorsese sulla lotta sanguinaria tra i protestanti di Bill Cutting e gli immigrati irlandesi dei Dead Rabbits, lasciarono spazio nei decenni successivi a un diffuso sentimento anticattolico nel Paese. Durante le campagne elettorali di Al Smith nel 1928 e di John Kennedy nel 1960, entrambi cattolici ed entrambi irlandesi, i due candidati del Partito democratico dovettero fronteggiare questo ostracismo: non poteva essere corso il rischio che il presidente statunitense fosse fedele a un altro leader mondiale come il Papa.
Il Catholic Ghetto nel quale i fedeli – immigrati italiani, irlandesi e polacchi in particolare – vennero confinati per quasi due secoli, venne lentamente demolito proprio dagli anni Sessanta. Prima la Seconda guerra mondiale, poi il Concilio Vaticano II gettarono un ponte tra le due sponde, creando le prime convergenze. Fu soltanto un paio di decenni più tardi, negli anni Ottanta, che Stati Uniti e Santa Sede formalizzarono le reciproche rappresentanze. Su iniziativa di Ronald Reagan, nel 1984 Washington e Vaticano instaurarono ufficialmente rapporti diplomatici.
La congiuntura favorevole tra il conservatorismo americano e quello vaticano, con Reagan, Bush padre e Bush figlio da una parte e papa Giovanni Paolo II e Benedetto XVI dall’altra, si mantenne almeno fino alla prima presidenza di Barack Obama, seguita dalle dimissioni di Ratzinger e dall’elezione di papa Francesco. Con l’arrivo di Trump, le scosse interne alla comunità cattolica, rimaste sotto controllo dagli anni Settanta in avanti, sono rapidamente divenuta irrefrenabili.
Nuovo ambasciatore, vecchie questioni
La società di analisi e consulenza Gallup, nelle scorse settimane, ha spiegato come Joe Biden, nonostante la sua profonda fede, non stia facendo meglio di Obama in termini di percentuali tra i cattolici. Secondo Frank Newport, autore della ricerca, il motivo è essenzialmente uno: l’insanabile spaccatura partitica del sistema statunitense.
Il cattolicesimo americano non sfugge a questa logica che divide e distingue tra repubblicani e democratici. Il grande successo di Donald Trump tra gli evangelici, nonostante la vita e il passato personale dell’ex presidente non si ispirassero propriamente alle Sacre Scritture, è dovuto proprio alla radicale politicizzazione della religione negli Stati Uniti. Da quando il Partito repubblicano, grazie a Reagan, ha innalzato la bandiera pro-life e antiabortista, schierandosi su posizioni intransigenti sulla morale sessuale e abbracciando il minimalismo dello Stato in economia, l’elettorato cattolico sensibile a questi temi ha scelto (quasi) automaticamente dove collocarsi.
Trump, all’interno della filiera repubblicana, non ha fatto eccezione, raccogliendo i frutti di un processo di scollamento interno alla comunità cattolica che va avanti dal Concilio Vaticano II e accelerato dall’elezione di papa Francesco. La prospettiva post-americana – nel senso di post-occidentale – di Bergoglio è diametralmente opposta a quella offerta da Trump durante la sua presidenza, scandita dallo slogan “Make America Great Again”.
Al di là delle incompatibilità sui temi specifici – dall’immigrazione all’economia, dalla commistione tra politica e religione all’ambiente – Francesco e Trump non rappresentano il picco del marasma cattolico in America. Biden non sarà l’uomo della provvidenza, destinato a riunire le due anime religiose del Paese. Le pulsioni della comunità cattolica statunitense, nella misura in cui rimarrà alto il livello di conflittualità politica tra democratici e repubblicani, continueranno a esistere. Anche con un nuovo ambasciatore.
Foto di copertina EPA/TONY GENTILE / POOL