L’Europa può fare poco di fronte alle nuove violenze tra Israele e Palestina
Le reazioni europee alla nuova crisi fra israeliani e palestinesi sono state oggetto di numerose critiche, a mio avviso non giustificate. È in un certo senso inevitabile che ogni discussione sul problema israelo-palestinese navighi fra due scogli: il rifiuto di molti arabi di riconoscere il diritto all’esistenza dello Stato d’Israele e il rifiuto di Israele di riconoscere uguali diritti ai palestinesi.
Privilegiare l’uno o l’altro corno del dilemma vuol dire trasformare la questione da politica a etica e renderla non risolvibile. Come tutti i contenziosi in cui le due parti contengono molti partecipanti che non vogliono l’accordo, anche in questo caso il treno del compromesso possibile passa raramente e c’è solo un piccolo spazio per non lasciarselo scappare. Un simile piccolo spazio ci fu al tempo degli accordi di Oslo, fino all’assassinio di Yitzhak Rabin. Gli storici disquisiranno sul perché il treno non si sia fermato, anche se la maggioranza degli analisti imputa ad Yasser Arafat la responsabilità di non aver avuto il coraggio di assumere il compromesso possibile. Dopo di allora la situazione si è solo deteriorata.
La politica israeliana è diventata sempre meno disposta alle aperture. Il movimento palestinese, all’origine laico, è ora largamente condizionato da estremismi religiosi; soprattutto ha lasciato crescere Hamas, un’organizzazione definita terrorista in tutto l’occidente e con cui la pace non è possibile. La prospettiva dei due Stati, da bandiera di chi crede nella pace è ormai diventata poco più di una giaculatoria che si scontra con ostacoli al momento insormontabili. L’alternativa di un solo Stato democratico con uguali diritti per tutti non la vuole in realtà nessuno dei contendenti. Il risultato è che Israele ha deciso di trattare il problema ignorandolo e i palestinesi vivono nella rabbia e si lasciano sedurre da Hamas.
Gli “accordi di Abramo” hanno sotterrato forse per sempre la soluzione dei due Stati ma, come era prevedibile, non hanno risolto nulla. Il buon senso, non il cinismo, ci dice che in questo momento nessuna soluzione duratura è possibile. Si può solo far cessare il massacro, nella speranza di creare lentamente e in futuro le condizioni per un dialogo più costruttivo.
Qualche parola sull’Europa, che in parte vale anche per gli Stati Uniti. La Shoah non è un crimine fra i tanti nella storia dell’umanità. È il “nostro” crimine. La creazione di Israele, nasce da quel crimine; non è quindi un fatto di cui prendere semplicemente atto. Ciò ovviamente non ci impedisce di criticare Israele quando lo riteniamo opportuno, ma senza dimenticare che la sua esistenza è anche una nostra responsabilità. Chi pensasse che fu un errore, non dimentichi che l’Europa e l’occidente non hanno solo pagato un debito.
Abbiamo anche permesso la formazione di uno Stato moderno e avanzato, a 70 anni dalla sua creazione ancora l’unica democrazia in tutto il Medio Oriente. Ciò non può che relativizzare la nostra equidistanza. Ogni popolo pensa innanzitutto alla propria sicurezza. Per Israele, stretto in una piccola fascia di terra e attorniato da popoli ostili, il bisogno di sicurezza diventa spasmodico; è prigioniero anche della paura di essere ancora una volta sacrificati dall’occidente e nell’obbligo di “fare da soli”. Noi siamo quindi nel dilemma di proteggere una nostra costola che però non si fida di noi e non sempre ci ascolta.
Nel caso specifico di questa ultima crisi, è evidente che alla sua origine ci sono alcuni errori israeliani. Tuttavia la forza massiccia dell’offensiva di Hamas non può non far pensare che l’attacco fosse previsto e preparato da tempo, in attesa del primo pretesto utile; pretesto che le autorità israeliane, in un perverso gioco delle parti, hanno prontamente fornito. Le accuse alla “tiepidezza” delle reazioni europee (e americane) sono quindi fuori luogo. La verità è che l’Europa non può in questo momento fare quasi nulla, altro che appoggiare eventuali iniziative americane se e quando si manifesteranno.
Infine c’è il nostro fronte interno. Il nuovo antisemitismo che aumenta in modo preoccupante in molti Paesi, non ha più nulla a che fare con quello europeo tradizionale. È alimentato dall’antisionismo che è cresciuto nei ghetti musulmani delle nostre città. Essi sono mal amministrati e mal integrati e questa è sicuramente una nostra responsabilità. Tuttavia non possiamo in alcun modo accettare che il prezzo sia pagato dalla comunità ebraica presente in Europa. Non bisogna del resto dimenticare che molti degli attentati compiuti da estremisti islamici in Europa hanno avuto, sotto pretesto di antisionismo, anche una matrice antisemita. Le misure di sicurezza prese in diversi Paesi sono quindi del tutto logiche e legittime.
Nella foto di copertina EPA/OLIVIER HOSLET / POOL un momento della riunione del Consiglio Affari Esteri di martedì 18 maggio