L’eccezione cilena in un’America Latina travolta dai contagi
Mentre in Europa e negli Stati Uniti la campagna di vaccinazione avanza, più o meno velocemente, l’epicentro della pandemia sembra essersi spostato in direzione di due diversi fuochi: l’India e l’America Latina.
In Colombia, dove le proteste contro il governo Duque infiammano da due settimane le piazze in tutto il Paese, le autorità prevedono un’impennata nei contagi nelle prossime settimane, che potrebbe aggravare una situazione sanitaria già critica.
L’Uruguay, un tempo lodato per la gestione della pandemia, oggi si ritrova uno dei tassi di mortalità più alti al mondo, dietro cui si piazzano Argentina, Colombia Perù e Brasile. Proprio quest’ultimo, nelle scorse settimane, ha mostrato difficoltà nel reperire anche ossigeno e respiratori per gestire l’ondata di contagi in tutto il Paese, mentre il presidente Jair Bolsonaro sembra continuare a minimizzare la minaccia del Covid-19.
Persino il Venezuela, non proprio famoso per la trasparenza degli organi governativi, ha dovuto ammettere un aumento della mortalità dovuta al virus dell’86% rispetto a gennaio. Infine, il dato regionale più significativo vede l’America Latina registrare il 35% delle vittime di Covid-19 nel mondo, ma con solo l’8% della popolazione globale.
I numeri del Cile
Nello scenario critico regionale va riportata, però, un’eccezione che non solo si sottrae al trend sudamericano ma si inserisce a pieno titolo nel podio dei Paesi più virtuosi nella gestione della pandemia a livello globale: il Cile.
I dati parlano chiaro: il Paese andino vanta un tasso di vaccinazione che sfiora il 50% della popolazione e si posiziona al terzo posto al mondo, appena dopo Israele ed Emirati Arabi Uniti. Le ragioni di questo successo vanno ricercate nella strategia messa in campo dal governo di Santiago del Cile, che si è mosso con agilità e scaltrezza – e in largo anticipo – per ottenere il maggior numero di dosi di vaccino il prima possibile e organizzando allo stesso tempo un piano di gestione della pandemia efficiente per contenere i contagi.
Rapidità e diversificazione
Il Cile si è attivato con grande anticipo elaborando un sistema di informazione e di governance preciso e trasparente e presentando il Piano di azione del governo contro il coronavirus già il 28 gennaio 2020 (la cosiddetta Fase 1), più di un mese prima dell’accertamento del primo caso di Covid-19 nel Paese, il 3 marzo.
Senza dubbio il virus ha avuto il suo impatto sul Paese causando più di 27 mila vittime e segnando profondamente l’economia cilena, considerata tra le più dinamiche della regione prima della pandemia. Da qui l’esigenza di reagire con forza e immediatezza: il governo si è mosso sul mercato mondiale dei vaccini iniziando a firmare, allo scorso settembre, accordi con le aziende farmaceutiche che stavano sviluppando i vaccini più promettenti, da Pfizer-BioNTech ad AstraZeneca e J&J, puntando molto sul preparato cinese della Sinovac e affidandosi anche al nascente meccanismo Covax.
La strategia di vaccinazione cilena è stata dunque improntata alla diversificazione dell’approvvigionamento e su un attento negoziato dei contratti che ha permesso al Paese da un lato di evitare i problemi di distribuzione legati ad una o poche fonti e dall’altro, dopo un braccio di ferro con la Banca mondiale per dimostrare la caduta dell’economia cilena durante la pandemia (e dunque la perdita del rango di “Paese ad alto reddito”), l’accesso al meccanismo di solidarietà Covax e a prezzi di favore in sede di negoziato privato. A ciò va aggiunta poi la decisione del governo di proporre il Paese come volontario per la sperimentazione di alcuni dei vaccini oggi approvati sul mercato globale. In particolare, un accordo -per alcune parti ancora segreto – con Sinovac ha permesso al Cile di ricevere più di 14 milioni di dosi, a disponibilità immediata e ad un prezzo ridotto, in cambio della possibilità da parte della big pharma cinese di condurre parte delle sperimentazioni di fase tre nel Paese andino.
Se il successo cileno ha trovato nella “diversificazione” la parola chiave della sua strategia, deve ricercare, invece, il suo “uomo chiave” nella figura di Rodrigo Yáñez Benítez, sottosegretario alle relazioni economiche internazionali e fedelissimo del presidente Sebastián Piñera. È proprio grazie al lavoro di Benìtez nel tessere e favorire le relazioni con le grandi società farmaceutiche che oggi il Cile è riuscito ad ottenere contratti per quasi 90 milioni di dosi fino al 2024, più che sufficienti per vaccinare due volte l’intera popolazione (19,2 milioni).
Secondo gli ultimi dati, il Cile sarebbe vicino al raggiungimento del proprio obiettivo di vaccinare l’80% della popolazione (15 milioni), avendo già vaccinato con due dosi 7 milioni di persone e inoculato la prima dose agli altri 8 milioni.
Le ombre del piano
Nonostante l’indubbio successo della campagna di vaccinazione, ultimamente sono apparse però le prime obiezioni all’operato del governo cileno, relative soprattutto alla scelta di puntare sul vaccino cinese. Il numero dei contagi, infatti, resta stabile intorno alle 5 mila unità al giorno (dato preoccupante per un Paese di 20 milioni di abitanti) e nelle ultime settimane sono state avanzate perplessità sull’efficacia del siero di Sinovac. Alcuni studi condotti nel Paese – e confermati dalle stesse autorità sanitarie cinesi – evidenzierebbero una percentuale di efficacia nella protezione dal virus di solo il 3% dopo la prima dose, percentuale che sale al 56% dopo la seconda.
Anche per questo motivo, le autorità sanitarie starebbero spingendo per favorire un aumento della somministrazione delle seconde dosi rispetto alla copertura delle prime. In ogni caso però il governo rimane fermo, per ora, nel puntare su Sinovac – da cui attualmente deriva il 93% dei vaccini distribuiti in Cile -per raggiungere l’obiettivo dell’immunità di gregge entro giugno.