Israele-Hamas: il Medio Oriente di nuovo nella spirale della violenza
GERUSALEMME. La tregua forzata derivata dalla pandemia è finita. Il Medio Oriente è caduto di nuovo nella spirale della violenza a cui, tristemente, aveva abituato il mondo intero. Una violenza inaudita, immotivata se non da sentimenti che covavano, da brace viva sotto la cenere a cui è bastato poco per divampare in un grande incendio che ancora non si riesce a domare.
Anzi, pare sia destinato a continuare, tanto che si parla già di terza intifada. Intorno, devastazione, pochezza politica, violenza, pulizia etnica. Diversi i motivi che hanno portato all’escalation degli ultimi giorni e che è coincisa con la fine del sacro mese islamico del Ramadan.
Dopo la chiusura dell’anno scorso dovuta alla pandemia, quest’anno le autorità israeliane hanno permesso, seppur in maniera ridotta, senza le folle oceaniche del passato, lo svolgimento delle feste religiose di questo periodo, centrali nelle tre religioni del Libro. All’inizio di aprile si sono tenute sia le cerimonie della Pasqua ebraica che di quella cristiano-cattolica, con la presenza di pochi fedeli, per il contenimento del virus che, anche in uno Stato leader in termini di vaccinazioni, continua, seppur in maniera molto irrisoria, a diffondersi.
I primi scontri
Le autorità di sicurezza israeliane, per questi motivi, avevano deciso di permettere a 10mila fedeli musulmani l’accesso alla Spianata delle Moschee (o Monte del Tempio, come è chiamato dagli ebrei), in occasione del Ramadan. I primi scontri si sono registrati proprio quando la polizia ha cercato di contenere i fedeli islamici e, di risposta, ha messo delle barriere contenitive dinanzi alla porta di Damasco, una delle otto porte (sette aperte) della città vecchia, che sia ebrei sia musulmani attraversano per raggiungere i loro luoghi sacri. L’inizio di queste proteste ha ovviamente acceso, come in tante micce, altre situazioni che covavano, per cui da una parte sono arrivati ebrei ortodossi al grido di “morte agli arabi”, dall’altro, al grido di “Allah Akhbar, questa terra ha bisogno del sangue” manifestanti arabi si sono scontrati con la polizia.
In un gesto di distensione, la polizia, dopo qualche giorno, ha rimosso le barriere. Ma oramai era troppo tardi. Anche perché, nel frattempo, due episodi avevano contribuito a esacerbare gli animi. Accusando Israele di non aver permesso il voto a Gerusalemme, il presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha bloccato (non si sa se cancellato o sospeso) le elezioni previste per fine maggio. E sono ripresi anche gli sgomberi forzati di famiglie palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est, a nord della città vecchia. In verità questi sgomberi non sono mai cessati, ma è in questi giorni che sono diventati centrali nello scontro fra le comunità che ha portato alle minacce di attacchi di Hamas poi diventate reali con sette razzi lanciati verso Gerusalemme ed altri in diverse zone del sud di Israele, a scontri con centinaia di feriti e decine di arresti, che hanno avuto come teatro anche luoghi sacri come la moschea di Al Aqsa.
Gli sfratti a Sheikh Jarrah
Il quartiere di Sheikh Jarrah prende il nome dal medico del condottiero Saladino e ospita la tomba di un venerato rabbino del III secolo avanti Cristo. Dopo che nel 1948, alla creazione dello stato di Israele, centinaia di migliaia di palestinesi persero la loro casa, nel 1956 28 famiglie palestinesi furono messe in questo quartiere dalla Giordania, che allora controllava Gerusalemme Est, su autorizzazione dell’organizzazione Onu per i rifugiati. Ebbero la promessa di ottenere un certificato di possesso della terra in cambio della rinuncia allo status di rifugiato, ma la Giordania non lo fece mai.
Nel 1967, con la Guerra dei Sei Giorni, Israele prende il controllo e la Giordania lo perde, le famiglie, che nel frattempo diventano 38, continuano a pagare un affitto simbolico. Comunità ebraico-ortodosse recuperano documenti che provano la loro proprietà sull’area dal 1885 e si appellano al tribunale israeliano che dà loro ragione. Già diverse famiglie sono state cacciate, quattro lo dovrebbero essere adesso e una ad agosto. Il punto è che la legge che permette loro di chiedere le case non si applica però alle migliaia di palestinesi che hanno abbandonato le abitazioni nel 1948, alla nascita di Israele.
Situazioni già viste in altre zone e nella città vecchia, dove si sta cercando di de-arabizzare la zona e aumentare la presenza ebraica, tant’è vero che gli arabi se costretti preferiscono cedere le case alle chiese. Per tentare di calmare la situazione, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha chiesto al tribunale di rimandare la decisione prevista per questi giorni sugli sfratti forzati, ma si tratterà solo di rinviare una decisione di fatto già presa.
Sirene anti-razzo anche a Gerusalemme
La comunità internazionale, dall’Unione europea agli Usa, dalle Nazioni Unite ai Paesi arabi chiedono a tutti calma. Sempre in una ottica di distensione, dopo essere stata autorizzata, è stata cancellata, mentre era in corso, la marcia degli ebrei delle bandiere, per ricordare quando nel 1967 Gerusalemme è stata conquistata dagli israeliani. Intanto, Hamas ha minacciato attacchi, mettendo Israele in stato di massima allerta, se le forze di sicurezza della Stella di Davide non lasciano la spianata e Sheikh Jarrah.
Alle 18 in punto ora israeliana, le sirene anti-razzo sono risuonate nel sud di Israele, anche a Gerusalemme, dove non accadeva da anni. Hamas sapeva che avrebbe scatenato una risposta veemente di Israele, cosa avvenuta e che ha portato almeno 23 morti con 9 minorenni. E allora perché farlo? Perché con il vuoto politico in Cisgiordania, Hamas si sta accreditando come unico rappresentante dei palestinesi. Non a caso sue bandiere erano sulla spianata, non a caso ha contestato ad Abu Mazen la decisione di non tenere le elezioni. Per Hamas, il sacrificio dei gazawi vale più del suo accreditamento come unica forza che possa governare i palestinesi.
Foto di copertina SAID KHATIB / AFP