IAI
Una tesi fuorviante - 1

Human Rights Watch e l’apartheid di Israele: un po’ di senso della storia

9 Mag 2021 - Giorgio Gomel - Giorgio Gomel

Il rapporto di Human Rights Watch pubblicato di recente (A Threshold Crossed: Israeli Authorities and the Crimes of Apartheid and Persecution) definisce gli atti di Israele nei confronti dei palestinesi oppressivi, disumani, diretti al dominio di un popolo – quello israeliano – su un altro – quello arabo-palestinese; ciò configura, secondo la definizione legalmente pregnante incorporata nello Statuto della Corte penale internazionale, un regime di apartheid e  di persecuzione, quindi un crimine contro l’umanitàIn un commento su AffarInternazionali, Andrea Dessì e Flavia Fusco ne condensano i contenuti.

Ritengo la tesi che ispira il rapporto non corretta metodologicamente e le raccomandazioni che ne conseguono in parte sbilanciate e politicamente improduttive.

Postulare una quasi identità fra le condizioni dei palestinesi cittadini di Israele (21% della popolazione), di quelli della Cisgiordania e di quelli che abitano nella striscia di Gaza in quanto soggetti sic et simpliciter ad un regime di controllo esercitato  da Israele è fuorviante. Gli arabi israeliani sono cittadini dello Stato, godono di pieni diritti civili e politici, sono elettori ed eletti (15 seggi nel Parlamento israeliano nelle elezioni del 2020, 10 nell’ultima tornata elettorale del marzo scorso).

Soffrono di disuguaglianze socio-economiche e discriminazioni sul mercato del lavoro, nell’offerta di istruzione, nella disponibilità  di terreni per abitazioni; una parte di loro – beduini – abitano in villaggi non riconosciuti dallo Stato nel deserto del Negev o in Galilea, privi di accesso all’acqua e all’energia elettrica. Diverse Ong israeliane (Sikkuy, Adalah) ne denunciano la gravità. La legge dello “Stato-nazione” approvata nel 2018 codifica inoltre  uno status privilegiato dell’etnia ebraica rispetto ad altre,  definendo Israele “Stato-nazione del popolo ebraico” e disconoscendo il fatto che vi è in Israele un’altra etnia che non può influire sul carattere dello Stato di cui i suoi membri – arabi  – sono cittadini con pari diritti: pari diritti individuali, ma  non i diritti collettivi di minoranza nazionale.

Eppure, se il presunto regime di apartheid si applicasse anche agli arabi di Israele, in una democrazia limitata ai soli ebrei, come potrebbero altre Ong  israeliane quali B’tselem, Yesh Din o Ha Moked da tempo agitare il tema? Yesh Din ha determinato in un’opinione legale resa nota nel luglio 2020 che il persistere dell’occupazione della Cisgiordania comporta un crimine di apartheid; B’tselem, nel gennaio scorso, ha definito il sistema ivi vigente un “regime di supremazia ebraica”.

Assai diversa è la condizione degli abitanti di Gaza soggetti al regime dispotico di Hamas, separati fisicamente dalla Cisgiordania, costretti in loco dal blocco a movimenti di persone e beni da e verso la Striscia che Israele ha imposto dopo il suo  ritiro del 2005 con il ricorrente esplodere di violenze lungo il confine. Diverso è infine l’assetto del dominio di Israele in Cisgiordania, dove la zona C (circa il 60% della superficie complessiva) è sottoposta al regime di occupazione militare di Israele  mentre le zone A e B  – dove vive la parte preponderante dei circa 2,5 milioni di palestinesi – è soggetta alla sovranità ancorché limitata dell’Autorità palestinese.

Paralleli o paragoni semplicistici con il Sudafrica, che il termine “apartheid” ovviamente evoca nel dibattito pubblico, pur non essendo in alcun modo suggeriti nel rapporto, sono poi del tutto fuorvianti. Non vi è un sistema di segregazione razziale; non vi è un’ideologia che codifichi una gerarchia di razze come nel Sudafrica dove una minoranza “bianca” opprimeva una maggioranza “nera”. Le bizzarrie della demografia implicano nel caso di Israele e Palestina una equivalenza: circa 6,8 milioni di arabi e 6,8 milioni di ebrei vivono in quel lembo di terra dal mar Mediterraneo al Giordano.

Certamente un’occupazione di 54 anni non è più un fatto temporaneo; non è più uno strumento di trattativa,  come negli anni successivi alla guerra del 1967 e fino agli accordi di Oslo del 1993, per uno scambio fra territori e pace. Sotto la pressione del movimento dei coloni e dei partiti di destra che sostengono l’espansione degli insediamenti, la confisca di terreni anche di soggetti privati palestinesi, la demolizione di case e strutture che costringono un numero crescente di abitanti all’abbandono dei loro luoghi di vita, il susseguirsi di decisioni amministrative che estendono la legge civile israeliana a parti della Cisgiordania rendono un futuro di due Stati indipendenti e in rapporti di buon vicinato via via più difficile e la realtà emergente nei fatti di uno Stato unico con diritti diseguali più vicina.

La seconda parte dell’analisi è stata pubblicata lunedì 10 maggio.

Foto di copertina EPA/AMEL PAIN