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Una tesi fuorviante - 2

Human Rights Watch e l’apartheid di Israele: un po’ di senso della storia (Parte 2)

10 Mag 2021 - Giorgio Gomel - Giorgio Gomel

Il metodo argomentativo che informa il rapporto di Human Rights Watch appare, forse per il prevalere di un’impostazione legalistica, del tutto astorico: come se l’intento di dominio e il regime discriminatorio fossero ingredienti costitutivi da sempre del sionismo e dello stato di Israele sin dalla nascita.

La forza egemonica della destra e lo spostamento profondo avvenuto nella società israeliana verso posizioni etno-nazionaliste sono anche una conseguenza nefasta della strada nichilista imboccata anni fa dai palestinesi: l’esplodere della violenza terroristica contro civili israeliani negli anni 2001-05; l’inutile guerra di guerriglia mossa da Hamas dalla striscia di Gaza, il rigetto da parte di Abu Mazen delle offerte positive del governo Olmert-Livni nei negoziati del 2008 che dischiuse la porta alla premiership di Benjamin Netanyahu e, da allora, ai governi del Likud con i partiti religiosi con esso alleati.

Ma il conflitto che avviluppa i due popoli da oltre cent’anni contrappone due movimenti nazionali che rivendicano un diritto analogo di autodeterminazione su uno stesso lembo di terra conteso.

Il sionismo, visto dal di dentro, è stato il movimento di liberazione nazionale del popolo ebraico: gli ebrei si affermarono soprattutto nell’Est europeo come gruppo etnico, non più come comunità religiosa, anelante a fuggire dall’antisemitismo e ad autodeterminarsi nella propria “patria” storica, a diventare lì una nazione “normale” dopo secoli di esilio e persecuzioni; ma quella terra era abitata da altre genti – arabi -, sudditi dell’impero ottomano e poi britannico, che col tempo e anche in virtù del confronto duro con il nazionalismo ebraico acquisirono un’identità nazionale come palestinesi.

Ai palestinesi il sionismo apparve come un movimento di stranieri colonizzatori cui bisognava resistere. Ancora oggi per la loro psicologia collettiva che ha vissuto l’insediamento degli ebrei in Palestina come un’ingiustizia, un’usurpazione dei propri diritti, é difficile accettare le conseguenze di questi eventi, la presenza ebraica in Palestina, l’esistenza dello Stato d’Israele.

Tardivamente, almeno nelle istanze ufficiali, lo hanno fatto, con le decisioni del loro Consiglio Nazionale nel 1988 e gli accordi di Oslo del 1993.

Guardando al futuro, la questione è come assicurare che Israele resti lo “Stato degli ebrei” nel senso di Theodor Herzl, il fondatore del movimento sionista, ma anche una democrazia piena per tutti  i suoi cittadini. Per molti questo è un ossimoro, un’impossibilità.

Io penso di no, ma vedo segni preoccupanti del degrado della democrazia con le leggi illiberali approvate  negli ultimi anni . Per essere una  democrazia compiuta Israele dovrà fare tre cose che ne trasformino lo status quo: 1) porre fine all’occupazione e spartire in un negoziato con lo Stato di Palestina la terra compresa fra il Giordano e il Mediterraneo ; 2) trattare in modo paritario i cittadini ebrei e non ebrei anche nella sfera economico-sociale; 3) separare religione e Stato.

La prima è la più urgente e fondamentale. Di tre cose – Israele come Stato-nazione del popolo ebraico, come democrazia, come Terra di Israele nella sua integrità biblica – due sole si possono conseguire.

O Israele rinuncia a parte rilevante della Cisgiordania, sgombera le colonie e negozia uno scambio paritario di territori (incorporando gli insediamenti più prossimi alla Linea verde e concordando un confine che lo separi dallo stato di Palestina) e conserva così la sua identità di stato ebraico e democratico, in cui gli ebrei sono maggioritari ma gli arabi godono dei pieni diritti civili e politici di una minoranza nazionale. Questo comporta – e non è piccola cosa – evacuare più di 100mila coloni che risiedono in una miriade di piccoli insediamenti dispersi nell’area C  ben oltre il tragitto  della barriera di separazione.

Oppure, perpetuando l’occupazione fino all’annessione de facto, Israele si tramuta in uno Stato binazionale, con uguali diritti per i cittadini ebrei e arabi, come vuole la democrazia; così però  gli ebrei saranno in prospettiva  minoritari e finirà il sionismo nelle sue fondamenta ideali e nella sua concreta attuazione, quelle di fondare un Paese in cui gli ebrei non siano soggetti al potere di altre comunità o etnie dominanti e agli abominii dell’antisemitismo. Oppure ancora, infine, inseguendo l’idea fondamentalista dell’integrità della Terra di Israele e del suo possesso esclusivo, Israele annette il territorio  e, privando i palestinesi dei loro diritti, conserva l’ebraicità dello Stato, ma in un regime di segregazione che sarà segnato da una perenne guerra civile fra arabi ed ebrei.

Seconda e ultima parte dell’analisi di Giorgio Gomel pubblicata domenica 9 maggio