Strada in salita per il coordinamento sanitario Ue
“Non possiamo aspettare la fine della pandemia per riparare i danni e pensare al futuro. Porremo le basi per un’Unione europea della salute più forte, in cui 27 Paesi possano lavorare insieme per avviare una risposta collettiva”. Era il 25 ottobre dell’anno scorso e, tradotte in italiano, le parole della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen suonavano più o meno così. Trascorsi poco più di sei mesi, quelle dichiarazioni sembrano già lontanissime. Se mai c’è stato un momento durante la pandemia in cui la creazione di un’Unione europea della salute sia stata più vicina, adesso quel momento si è allontanato.
Nel mezzo c’è stata la partenza lentissima sui vaccini, che gli Stati membri dell’Ue hanno potuto rinfacciare alla Commissione proprio a causa di quel tentativo di strappo e accelerazione iniziale di von der Leyen. Insomma, proporre di centralizzare tutto, subito – anche forzando la lettera dei Trattati – non ha pagato.
Un’integrazione fatta sulle crisi?
Per le istituzioni europee cercare di bruciare le tappe approfittando delle crisi è un po’ un riflesso condizionato. Che ci riporta subito alla prima, grossa crisi europea del decennio appena trascorso: la doppia recessione economica e la crisi dell’euro. Allora la tragica situazione in Grecia e i rischi per la tenuta finanziaria di piccoli ma anche grandi Paesi europei (inclusa l’Italia) portarono al rafforzamento dell’Unione economica e monetaria: il Quantitative Easing della Bce, la creazione del Meccanismo europeo di stabilità, il quasi completamento dell’Unione bancaria. D’altronde, chi studia l’Europa se lo sente dire spesso: l’integrazione europea si è “fatta” sulle crisi. La Seconda guerra mondiale ci ha portati alla Cee, l’implosione dell’Unione sovietica ci ha condotti all’Ue, la crisi delle monete nazionali dei primi anni Novanta ha imposto l’euro, la crisi dell’euro ha rafforzato la sorveglianza fiscale e la risposta monetaria.
In realtà si tratta di un caso perfetto di memoria selettiva. Brexit, una vicenda che mette in crisi il vero e proprio “destino manifesto” dell’Europa (quello di essere una ever closer Union, una “Unione sempre più unita”), è stata quantomeno interlocutoria sul piano della maggiore integrazione tra i 27 governi restanti. E il passato recente ci offre un chiaro caso in cui una crisi non ha certo portato a “più Europa”: l’impennata dei flussi migratori del 2015. Anche lì, la Commissione europea aveva fatto proposte ambiziose nella speranza che, se le cose fossero andate per il verso giusto, questo avrebbe significato maggiori competenze acquisite per la Commissione e un altro passo in avanti nel processo d’integrazione europea. Qualcosa di simile è accaduto con la pandemia e i vaccini.
Le cose che non vanno
Con i vaccini si trattava di negoziare “in blocco” con le case farmaceutiche, anziché andarci separati e rischiare una guerra per le forniture tra Stati membri; con i migranti, nel 2015, di redistribuirli in maniera solidale tra gli Stati membri. Alla fine, in entrambi i casi è andata male: i ricollocamenti di richiedenti asilo sono stati un fallimento, mentre sui vaccini il Regno Unito della Brexit ha astutamente “raggirato” l’Europa e gli Stati Uniti ci hanno doppiato. Con che faccia la Commissione può presentarsi oggi ai Paesi europei per passare all’incasso?
Inoltre, c’è da chiedersi: se anche le vaccinazioni fossero andate bene, a cosa precisamente dovrebbe servire un’Unione europea della salute? Certo, la pandemia ha messo in evidenza una serie di cose che proprio non vanno nell’attuale gestione della cosa pubblica tra gli Stati membri. Per esempio, malgrado ci sia in un mercato comune, le regole per le chiusure e le riaperture le abbiamo stabilite a livello nazionale, e solo verso l’estate scorsa abbiamo tentato di trovare indicatori condivisi per definire la gravità della situazione epidemiologica in ciascun Paese. Dopo averlo fatto, abbiamo comunque faticato prima di riuscire a trovare qualche regola che facesse discendere da questa descrizione “condivisa” delle conseguenze pratiche – come la maggiore chiusura o riapertura delle frontiere, o un rilassamento delle regole di isolamento.
In ogni caso, le regole sui movimenti tra Stati membri non riguardano specificamente la sanità e sono negoziate a livello di capi di Stato e di governo. Che, a riprova di quanto divisi siano i 27, oggi discutono di un “certificato verde digitale” per i vaccinati (ma anche per chi sia guarito da poco dal virus, o abbia ottenuto un risultato negativo al test) che sia omogeneo per tutti, ma da cui di fatto potrebbero scaturire regole diverse stabilite a livello nazionale.
La lezione del dossier migranti
È il meglio che si possa fare a livello di coordinamento sanitario europeo? Certo che no. La pandemia ha dimostrato che mettere insieme le competenze porterebbe benefici in diversi ambiti. Migliori e più omogenee politiche di testing e tracciamento, che permettano di fidarci gli uni degli altri. Una capacità di tener traccia del virus e delle sue varianti che non sia così diversa da Paese a Paese – il che ha forti conseguenze, di nuovo, sulla fiducia reciproca. Una “centrale” per coordinare gli acquisti di materiale sanitario e attrezzature mediche e la loro distribuzione ai Paesi europei più in difficoltà, a seconda di come evolve un’emergenza sanitaria internazionale. Un miglior coordinamento per gestire gli aiuti ai Paesi terzi, anziché 27 risposte nazionali che vanno a sommarsi (spesso, a sovrapporsi) a quella europea.
Perché, dunque, non lo facciamo? Dobbiamo essere realisti e dircelo onestamente: ciascuno Stato membro è geloso del proprio sistema sanitario nazionale e non vuole rischiare che sorveglianza e coordinamento “europei” vadano a beneficio di altri. Ripeterci che “nessuno è al sicuro finché tutti non sono al sicuro” è un ottimo modo per ricordarci che esistono anche gli altri. Ma, in situazioni di stress e di risorse scarse, l’istinto ci porta a dimenticarci del bene pubblico globale per guardare al nostro orticello.
È accaduto con le migrazioni internazionali qualche anno fa e così oggi, con i flussi irregolari in ripresa nel Mediterraneo centrale, siamo nella stessa situazione del 2015. Sarebbe tragico se, dimostrando di non aver imparato alcuna lezione, i governi europei lasciassero che lo stesso accada con la pandemia.
Questo articolo è stato pubblicato nell’ambito dell’Osservatorio IAI-ISPI sulla politica estera italiana, realizzato anche grazie al sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Le opinioni espresse dall’autore sono strettamente personali e non riflettono necessariamente quelle dello IAI, dell’ISPI o del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.