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Netanyahu ci riprova

Israele: paralisi post-elettorale in una democrazia incompiuta

18 Apr 2021 - Giorgio Gomel - Giorgio Gomel

Giunta alla quarta tornata elettorale in appena due anni, Israele ha confermato nelle elezioni di marzo il primato di Benjamin Netanyahu, leader del Likud e premier con ininterrotta continuità da 12 anni, nonostante le imputazioni che gravano su di lui per corruzione e abuso di fiducia e l’attesa di un processo che la pandemia e le lungaggini procedurali hanno posposto più volte. Le udienze sono appena riprese dopo un lungo intervallo.

Oggetto della contesa elettorale è stato dunque il futuro di Netanyahu; le elezioni si sono risolte in un plebiscito sul suo conto, una distorsione delle norme di una democrazia compiuta dove se si è colpiti da un’incriminazione si è soggetti  ad un processo, non ad un’elezione.

I nodi da sciogliere
I temi cruciali per il Paese – un accordo di pace con i palestinesi che soddisfi il loro diritto ad uno Stato indipendente,  il rispetto dello Stato di diritto, il legame complesso e contorto fra religione e politica con il potere dominante delle autorità religiose in materia di diritti civili e di famiglia, le disuguaglianze socio-economiche – sono stati largamente elusi. Solo la sinistra, pur debole e  frammentata, ha agitato il dilemma che incombe sul futuro del Paese. Anche gli esiti della pandemia, molto negativi all’inizio con vasti contagi e decessi, poi positivi con la rapida e diffusa campagna di vaccinazione di massa, non sembrano avere influito in misura rilevante sul voto.

Nell’attuale frangente i palestinesi restano deboli e divisi, pur nella prospettiva di elezioni in Cisgiordania e a Gaza che dovrebbero svolgersi a maggio e condurre forse ad un assetto di relazioni pacificatrici fra i due antagonisti Fatah e Hamas; parte dello stesso mondo arabo osteggia con malcelato fastidio e quasi insofferenza le loro istanze di uno Stato indipendente, sospinto da una convergenza di interessi con Israele e contro l’Iran, fino a stabilire pieni rapporti diplomatici con lo Stato ebraico.

In un tale contesto gli elettori israeliani hanno teso quindi a dividersi su Netanyahu, le sue pretese di immunità dall’eventuale condanna, la disputa circa l’indipendenza dei giudici e della Corte suprema, sottoposti ad una campagna pesante di delegittimazione mossa dalla destra.

Gli aghi della bilancia
Nel nuovo parlamento i partiti orientati ideologicamente a destra occupano circa 75 seggi su 120, sebbene almeno due di questi – “Israele casa nostra” di Lieberman e “Nuova speranza” di Sa’ar –  appartengano al fronte anti-Netanyahu e abbiano forse attratto voti di elettori centristi spinti da questo fine comune più che dall’ideologia da loro incarnata.

Lo spoglio delle schede ha rivelato una quasi paralisi: 52 seggi in favore di Netanyahu, sebbene il suo partito abbia perso ben 6 seggi rispetto ad un anno fa; 57 contro, ma in uno spettro molto eterogeneo di posizioni; 11 attribuiti a due partiti agli estremi opposti dello schieramento politico – l’uno della destra nazionalista, l’altro islamista-conservatore -. Potrà Netanyahu, cui il presidente Reuven Rivlin ha affidato l’incarico esplorativo di formare un governo, comporre una coalizione in cui convivono un partito che predica l’annessione dei territori e un partito arabo vicino alla Fratellanza musulmana? Forse, nella sua notoria spregiudicatezza tattica, tenterà di sedurre transfughi dalla “New Hope” dell’ex delfino Gideon Sa’ar, in buona parte membri un tempo dello stesso Likud, avversi a Netanyahu, oppure lo stesso Benny Gantz, leader del partito “Blu e bianco” e ministro della Difesa nel governo in carica, con l’argomentazione che solo lui può salvare Israele dall’ipoteca di un governo che includa gli islamisti oppure i razzisti della nuova formazione “Sionismo religioso”. 

La rappresentanza araba
La Lista araba unita ha subito un collasso di suffragi da 15 a 6 seggi. In parte ciò ha riflesso il diminuire della partecipazione al voto dei cittadini arabi di Israele delusi dalla vicenda post-elettorale del 2020 quando Gantz, nel momento in cui gli era stato affidato l’incarico di formare e guidare il governo, aveva respinto l’offerta di un appoggio dei partiti arabi, ma anche la frattura avvenuta nella lista che federava quattro partiti. Uno di essi, il Ra’am, di orientamento islamista, conservatore in materia di diritti civili e sociali, è fuoriuscito dall’alleanza, sedotto dalle lusinghe del premier uscente e dalla convinzione di potere influire dall’interno di un’eventuale coalizione di governo sulle sorti della minoranza araba, che soffre di disagio economico, penuria di case, infrastrutture, scuole, ed è percorsa da un’ondata inquietante di crimine.

La sinistra  – laburisti e Meretz – ridottasi ad appena il 5% dei suffragi nelle elezioni di un anno fa, ha stavolta ripreso vigore giungendo al 10% circa. Sono ritornati nel suo alveo elettori che nel 2019 e 2020 avevano optato per un voto strategicamente utile in favore del partito di centro “Blu e bianco” in opposizione a Netanyahu, partito che si è poi diviso dopo la decisione del suo leader Gantz di entrare in un governo di unità nazionale con lo stesso capo del Likud.

È fallito per ora il tentativo di alcuni intellettuali ed attivisti progressisti di dare luogo ad un partito arabo-ebraico, sebbene nei partiti della sinistra ebraica siano stati eletti candidati arabi. Ma in un orizzonte di medio periodo la riscossa del centro-sinistra nel Paese esige un’alleanza politica fra ebrei ed arabi per un futuro fondato su principi di eguaglianza e democrazia.

Il pericolo dell’estrema destra
Infine, il fatto più  preoccupante è dato dagli oltre 20 seggi su 120 ottenuti dalla destra religioso-fondamentalista: oltre ai due partiti che riflettono tradizionalmente le istanze delle comunità ultraortodosse che mirano ad imporre la loro concezione teocratica del potere sul resto del Paese (legati da anni da un’alleanza stretta di governo con il Likud), è entrata alla Knesset una nuova formazione, detta “Sionismo religioso”, che ha sottratto loro un numero significativo di suffragi.

Questa formazione è, in una delle sue componenti, erede del Kach, il partito  fondato da Meir Kahane, alfiere del razzismo anti-arabo, che fu escluso per tale motivo dal Parlamento sul finire negli anni ’80; predica l’espulsione non solo dei palestinesi ma anche degli arabi di Israele che non accettino un test di fedeltà allo Stato, l’annessione dell’intera Cisgiordania, la discriminazione delle comunità Lgbtq. 

“Sionismo religioso”, che Netanyahu ha favorito e sospinto nella campagna elettorale per non dissipare voti a destra, potrebbe entrare in una coalizione delle destre religiose e nazionaliste, assicurando la maggioranza richiesta di 61 seggi e condizionando pesantemente le azioni di un futuro governo. 

Nella foto di copertina EPA/AMIR COHEN / POOL un momento delle consultazioni del presidente della Repubblica Reuven Rivlin