Minacce internazionali per l’Ue: c’è l’imbarazzo della scelta
I nostri alleati americani, concordemente convinti che la Cina costituisca la maggiore sfida alla loro leadership globale, ma ancora alla ricerca di una credibile strategia di contenimento, chiedono con insistenza agli europei maggiore vigilanza e maggiore fermezza nei confronti di una asserita minaccia cinese. Ma in un’ottica europea la realtà si presenta in maniera più articolata. E la cronaca di queste ultime settimane mostra un contesto internazionale in cui le sfide alla sicurezza dell’Europa sembrano provenire da altrove.
La Russia di Vladimir Putin rimane assertiva, minacciosa, e poco interessata a un rapporto costruttivo con l’Europa. Il fallimento della visita a Mosca di Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Ue per la politica estera e di sicurezza comune, è stato solo il momento più clamoroso di una serie di episodi che hanno confermato le difficoltà nelle relazioni con Mosca. In quella occasione, la Russia ha confermato, con modalità molto esplicite, di non essere disposta ad accettare interferenze nei propri affari interni e, soprattutto, critiche per la pretesa di considerare i suoi vicini come zona di influenza esclusiva. Il recente minaccioso schieramento di truppe russe lungo i confini orientali dell’Ucraina, combinato con il persistente rifiuto di impegnarsi nella ricerca di una soluzione politica della crisi in quel Paese, conferma un atteggiamento assertivo e contrario alla ricerca di convergenze con gli europei. Mosca poi, come dimostrano anche casi recenti, prosegue le sue attività di spionaggio, gli attacchi cyber e le sistematiche interferenze nelle vicende interne europee. Ma la Russia, per quanto economicamente debole, resta pur sempre per l’Europa un partner economico e energetico importante, e un interlocutore irrinunciabile per la gestione di crisi regionali e sfide globali.
La Turchia di Erdoğan è un altro rompicapo per l’Europa. Tutt’altro che turbata dalle reazioni europee all’incidente del “sofa-gate”, Ankara ha anzi colto l’occasione per ribadire nel modo più plateale di non esser disposta ad accettare da nessuno lezioni di democrazia, né di tollerare proteste per le sistematiche violazioni di libertà fondamentali, dei diritti delle opposizioni e delle minoranze. Gioca disinvoltamente la carta dei rifugiati siriani presenti nel suo territorio per indurre l’Europa ad una posizione accomodante su altri scacchieri. E continua a condurre una sua assertiva politica estera raramente compatibile con la sua appartenenza alla Alleanza Atlantica, e ancor meno con il suo teorico status di Paese candidato alla adesione all’Unione europea.
Russia e Turchia, poi – talora in competizione fra loro, più spesso sulla base di intese più o meno confessabili -, stanno consolidando le rispettive sfere di influenza in aree di diretto interesse per la sicurezza dell’Europa, in particolare nel Mediterraneo. Lo si vede da anni in Siria, dove sono impegnate in un difficile esercizio di gestione congiunta della situazione e di posizionamento rispetto ai futuri assetti del Paese. Lo si vede in Libia dove di fatto continuano ad essere presenti con forze militari sul terreno a sostegno dei rispettivi referenti locali, condizionando gli incerti sviluppi di un processo di riconciliazione nazionale appena avviato.
Su un altro fronte, i tentativi degli europei, incoraggiati dall’Amministrazione americana, di riavviare un dialogo con l’Iran con l’obiettivo di aggiornare l’accordo sul programma nucleare iraniano, si scontrano con una complicata realtà sul terreno. Israele, infatti, non perde occasione per sabotare, con ogni mezzo, questi tentativi. L’assassinio del responsabile del programma nucleare iraniano, Moshen Fakhrizadeh, e, più di recente, l’attentato all’impianto di arricchimento dell’uranio di Natanz sono altrettante iniziative mirate a rendere più complicata la ripresa di un dialogo con Teheran. La reazione iraniana si è puntualmente fatta sentire con l’annuncio un ulteriore aumento delle capacità di arricchimento dell’uranio. E con un probabile irrigidimento della posizione iraniana nei colloqui di Vienna.
In Afghanistan il ritiro delle truppe americane entro la simbolica scadenza dell’11 settembre (inevitabilmente seguito dai contingenti Nato) non ha colto di sorpresa. Da tempo preparato dalla Amministrazione Trump, che aveva avviato un negoziato con i talebani, questo ritiro, dopo venti anni di presenza della Nato sul terreno, appare però giustificato più da esigenze di politica interna dell’Amministrazione statunitense (largamente condivise dagli altri alleati) che non dalla constatazione che la missione aveva raggiunto i risultati sperati.
Pochi dubitano che questa decisione sia destinata ad aprire un periodo di grande incertezza per il futuro dell’Afghanistan. Certamente la sicurezza e la stabilità del Paese non potevano continuare a dipendere “sine die” dalla presenza delle forze della Nato. Ma verosimilmente dopo la fine della missione alleata l’Afghanistan dovrà fare i conti con un contesto interno ancora più fragile e incerto. I talebani potrebbero infatti, più o meno rapidamente, riprendere il potere e il pieno controllo del territorio, con tutte le conseguenze del caso sul difficile processo di modernizzazione del Paese e sulla situazione in materia di diritti e libertà fondamentali, ivi compresi in particolare quelli delle donne. Ma il ritiro della missione della Nato aumenta anche il rischio che l’Afghanistan torni ad essere un santuario di Al Qaeda e di altre formazioni terroristiche jihadiste, che potrebbero tornare ad utilizzare il Paese per lanciare azioni destabilizzanti in Afghanistan e in altri Paesi.
Su questa tela di fondo va quindi valutata la cosiddetta minaccia cinese. Come conseguenza delle pressioni americane, ma anche per motivi oggettivi, l’Europa sarà sempre più costretta a confrontarsi con la Cina, che si presenta come campione del globalismo e del multilateralismo, ma il cui potenziale economico e tecnologico appare sempre più al servizio di una strategia di penetrazione politico-strategica. E anche senza mettere in conto le minacce a Taiwan o il trattamento dell’opposizione democratica a Hong Kong e delle minoranze musulmane nello Xinjiang, la crescente supremazia tecnologica, l’aggressività commerciale, le difficoltà di accesso allo sterminato mercato interno cinese, il livello dei sussidi pubblici al sistema delle imprese, sono altrettanti aspetti difficilmente accettabili di un rapporto ancora troppo squilibrato.
In realtà, in Europa si è consapevoli delle sfide che pone il rapporto con il gigante asiatico, ma non si percepisce Pechino come una minaccia diretta alla sicurezza europea. E soprattutto per l’Europa la Cina resta un partner economico e commerciale irrinunciabile. Solo di recente sta emergendo la consapevolezza della necessità di una “China policy” europea condivisa, sia per evitare iniziative isolate di singoli Stati membri (destinate a favorire la strategia cinese del “divide et impera”), che per non correre il rischio di dover scegliere fra l’alleato tradizionale e la potenza emergente.
Da qui l’urgenza di una strategia comune che consenta di difendere gli interessi europei senza entrare in rotta di collisione con gli alleati americani. Una strategia che si fondi su alcuni elementi irrinunciabili: fermezza su valori e principi, chiarezza sui termini e le condizioni della collaborazione su investimenti e commercio, controllo selettivo della presenza di imprese cinesi in Europa, vigilanza sui rischi di interferenze sulla sicurezza interna. Ma anche rafforzamento della collaborazione sulle grandi sfide globali (come il cambiamento climatico e le pandemie) e altri temi di interesse comune.
Foto di copertina EPA/STEPHANIE LECOCQ