Diplomazie a confronto: tra sofa-gate, Draghi e Erdoğan
Ha suscitato grande scalpore, negli ultimi giorni, quanto accaduto ad Ankara durante l’incontro tra il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel. Ribattezzato “sofa-gate”, con gli scatti fotografici dalla sala del sontuoso Ak Saray (letteralmente “Palazzo Bianco”, vicino per simbolismi alla Casa Bianca e al potere di Washington) con Michel ed Erdoğan accomodati tra le bandiere di rappresentanza sulle sedie e von der Leyen lasciata da sola su un divano di fronte al ministro degli Esteri turco, Mevlüt Çavuşoğlu.
La questione ha creato non poco imbarazzo tra le diplomazie europee e destato reazioni non morbide, anche da parte del presidente del Consiglio Mario Draghi. Risposte che hanno in qualche modo offuscato, dalle cronache e non solo, il risultato reale dell’incontro e il negoziato sui diversi dossier aperti tra Unione Europea e Turchia.
Protocolli a confronto
Sull’incidente diplomatico e sul suo significato è stato già scritto copiosamente. Ciò che potrebbe interessare per maggiore chiarezza è la comprensione dei diversi protocolli negoziali europeo da una parte e turco dall’altra, insieme al ruolo degli attori presenti ad Ankara.
In base a quanto riportato dagli organi di stampa nelle ultime ore, Nikolaus Meyer-Landrut, ex consigliere di Angela Merkel per le politiche europee e già ambasciatore tedesco in Francia, oggi capo della delegazione dell’Ue in Turchia, era a conoscenza del cerimoniale preparato per l’occasione. Credere alla casualità della situazione è molto difficile, a fronte del fatto che è naturale che ogni responsabile del cerimoniale riesamini nel dettaglio le procedure previste prima di un incontro ufficiale, così come rielaborato nel lontano 1815 dal Trattato di Vienna e da allora seguito da tutti. A riguardo è intervenuto anche Eric Mamer, portavoce della presidente della Commissione, precisando che l’incontro è stato organizzato dalle autorità turche e che il protocollo per il presidente della Commissione e per quello del Consiglio europeo è identico.
La Turchia, tramite le dichiarazioni di Çavuşoğlu, rimanda tutte le accuse al mittente e rivendica come il protocollo sia stata concordato nei giorni precedenti, seguendo le linee suggerite dall’Unione europea. Da rilevare, resta il fatto che lo stesso Çavuşoğlu ricopre un ruolo non al pari del presidente Erdoğan, che resta invece la più alta autorità in politica estera, mentre ministro degli Esteri, Comitato per la sicurezza, Consiglio di sicurezza nazionale e intelligence ricoprono un ruolo di advisor.
La reazione dell’Italia
Ma l’increscioso episodio del “sofagate” non ha suscitato solo questioni intraeuropee su cui è certamente necessario riflettere. Ha scatenato anche la forte reazione del presidente Draghi: Erdoğan è “un dittatore con cui si deve cooperare”, ha detto del presidente turco. Un fatto che non solo ha messo in agitazione le diplomazie dei due Paesi, con le conseguenti convocazioni degli ambasciatori, ma che ha anche causato una forte condanna da parte dell’establishment turco: le dichiarazioni occupano ancora, a distanza di ore, le colonne dei diversi quotidiani turchi e un “no comment” dall’Europa.
Il rapporto resta così incrinato da parole dure, che assumono una tinta ancora più scura se si riflette sul fatto che Erdoğan è certamente un leader autoritario e nazionalista, fautore di una politica estera muscolare (meno incline al soft power della “zero problemi con i vicini” dell’ex ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu), ma dal 2002 vince regolari elezioni e che nel Paese persiste un’importante opposizione al governo dell’Akp. Lo si nota ad Izmir, il cui distretto è da sempre meno affine alle posizioni del partito di Erdoğan.
Lo è visto con le ultime elezioni municipali del 2019, quando l’Akp ha perso baluardi importanti come le città di Ankara e di Istanbul. E lo si nota anche rispetto alle dimostrazioni di dissenso della popolazione, e al disincanto da parte di una fetta di essa a fronte della crisi finanziaria che imperversa in Turchia dal 2018 e che ha messo a nudo e disatteso la promessa di Erdoğan di garantire giustizia e sviluppo – come il nome del partito – per tutti.
Vicini e ora più lontani?
Le dichiarazioni di Draghi, dunque, sembrano allontanare, e non di poco, Turchia e Italia, partner importanti non certo solo per la forte complementarità economica, ma legati storicamente a filo doppio. Turchia e Italia, inoltre, sono entrambi Stati membri della Nato, fatto che riveste una funzione chiave se letto alla luce della situazione in Libia e in Siria, ma anche a fronte della recente dichiarazione del presidente ucraino Volodymyr Zelensky sulla volontà di entrare a far parte dell’Alleanza. Al di là delle responsabilità e delle intenzioni, il guaio diplomatico del “sofa-gate” si incunea nei negoziati tra Unione europea (e Italia) e Turchia, dopo gli sforzi legati alla modernizzazione dell’unione doganale e al dossier sulle politiche migratorie.
Ma soprattutto rischia di dimostrare ancora una volta come l’approccio maschilista e sopra le righe di Erdoğan è del tutto proteso a ribadire costantemente che la Turchia è un player regionale importante. Anche pensando a questo, non stupisce che dopo tutto questo trambusto, il 9 aprile, Erdoğan e il presidente russo Vladimir Putin abbiano discusso telefonicamente di nuovi e ulteriori accordi bilaterali sullo sviluppo regionale.