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Le trattative con Bruxelles

Alitalia: una situazione confusa che va avanti da 20 anni

22 Apr 2021 - Alfredo Roma - Alfredo Roma

Da sempre nella storia di Alitalia hanno giocato un ruolo decisivo l’insipienza della classe politica e l’incompetenza dei manager che l’hanno guidata. Per capire la situazione odierna della compagnia diamo un rapido sguardo agli ultimi vent’anni di questa storia. Nel gennaio 1993 l’Unione europea ha completamente liberalizzato il trasporto aereo. Da quel momento un qualsiasi vettore con sede nei paesi dell’Unione poteva operare le rotte tra i Paesi membri o all’interno di ogni singolo Paese.

Grazie a questo, dopo poco tempo sono nate le compagnie low-cost, basate su una strategia di bassi costi di personale, aerei nuovi di un solo modello con modesti costi di manutenzione, eliminazione di servizi superflui a terra e in volo. Questo ha permesso di offrire voli a tariffe assai competitive rispetto a quelle delle compagnie tradizionali. Queste ultime – in particolare Air France, Lufthansa e British Airways – svilupparono allora i collegamenti di lungo raggio con i paesi extra-Ue, preclusi alle compagnie low-cost perché basati su accordi bilaterali di traffico (Asa) che designano una sola compagnia per ogni Paese. Così sono nati i grandi hub europei di Londra, Parigi e Francoforte.

La politica e i manager che guidavano Alitalia, a quel tempo azienda di Stato, non capirono questo processo e mantennero un numero minimo di macchine di lungo raggio, circa 25 – contro le oltre 100 del gruppo Klm-Air France o 120 del gruppo Lufthansa – che permetteva di operare solo poche rotte di lungo raggio.

Nel 1999, per colpa dei dirigenti Alitalia, saltò l’accordo Klm-Alitalia, un’intesa che avrebbe dato vita al principale network europeo con 40 milioni di passeggeri trasportati e quasi 300 aerei, 377 destinazioni e 87 paesi serviti. Nel 2008, per colpa dei sindacati, saltò anche l’accordo tra Alitalia e il gruppo Klm-Air France.

La cessione ai privati e i commissari
Arriviamo così alla fine del 2008, quando il miope slogan “Alitalia deve restare italiana”, coniato dalla politica solo per ragioni elettorali, affidò la compagnia ai famosi “capitani coraggiosi” di Alitalia Cai con una liquidazione della vecchia Alitalia che costò quattro miliardi di euro al contribuente italiano. Questa scelta dimostrò che non è assiomatico che i privati gestiscano meglio del pubblico: la gestione dei capitani coraggiosi fu catastrofica.

Nel 2015, con l’entrata di Etihad, Alitalia Cai divenne Alitalia Sai. E anche questo fu un esperimento fallimentare, tanto che è ancora un corso un procedimento penale a carico dei dirigenti della società. Lo Stato fu allora costretto a intervenire nuovamente e affidare Alitalia a tre commissari: Luigi Gubitosi, Enrico Laghi e Stefano Paleari. Ma neppure questi riuscirono a rimediare alla disastrosa situazione di Alitalia, tenuta in piedi fino a poco tempo fa con sussidi chiaramente configurabili come aiuti di Stato, non permessi dalle regole dell’Ue. Nel 2019 fu decisa l’amministrazione straordinaria di Alitalia, tuttora in essere, affidata a Giuseppe Leogrande, che raccolse le ceneri della compagnia.

Sono trascorsi due anni e ancora una soluzione non è stata trovata. Alla situazione già difficile di Alitalia si sono aggiunti gli effetti della pandemia. Gli stessi effetti si sono ripercossi anche su Air France a Lufthansa, ma i governi di Francia e Germania sono intervenuti con oltre dieci miliardi di euro di sussidi, acquisendo anche una quota di minoranza nelle due compagnie. La Commissione europea ha permesso questi interventi, quindi i tre miliardi messi a disposizione dall’attuale governo per Alitalia dovrebbero essere accettati dalla stessa Commissione. Ma qui si è inserita l’idea assurda della ex ministra dei Trasporti Paola De Micheli di costituire una newco (Ita), inutile per il futuro di Alitalia. Ita non ha un certificato di operatore aereo (Coa), che viene rilasciato dall’Enac a un vettore già strutturato, certificato necessario per poter volare.

La ricetta svizzera
Una soluzione possibile per Alitalia era già stata proposta nel 2017, anche su questa rivista. Prendendo ad esempio il caso di Swiss Air, risollevata da un quasi fallimento da Lufthansa, si dovrebbe puntare su Cityliner, società controllata da Alitalia, che tra l’altro ha costi di personale molto inferiori a quelli di Alitalia e che già possiede un regolare Coa. Cityliner  rileva le principali attività di Alitalia (soprattutto aerei e personale navigante), mentre il resto viene sottoposto a procedura di liquidazione.

Cassa Depositi e Prestiti rileva le azioni che Alitalia detiene in Cityliner e inizialmente finanzia questa società con i tre miliardi stanziati dal governo affinché possa operare. Cityliner estende gradualmente le sue attività di volo arrivando a comprendere gran parte di quelle attualmente operate da Alitalia. In seguito si troveranno anche  soci privati disposti a entrare nel capitale di Cityliner, mentre lo Stato potrebbe mantenere una quota del 15/20% del capitale. Tra i nuovi soci ci può essere anche una grande compagnia aerea che aiuti a sviluppare sinergie di mercato con Cityliner sul lungo raggio.

Nel frattempo si rivedono i costosi contratti di leasing e si cede l’attività di handling, mentre si potrebbe mantenere l’attività di manutenzione offrendola anche a terzi e riprendere l’attività cargo. Alla fine Cityliner cambia la ragione sociale che ritorna Alitalia Spa. Questo progetto corrisponderebbe anche alla richiesta di “discontinuità”, ripetuta anche in questi giorni dalla Commissione come prerequisito per accogliere le richieste del governo italiano.

La confusa situazione attuale
Purtroppo, quanto illustrato ai sindacati nell’audizione del 13 aprile circa la futura strategia di Alitalia sembra preludere a un piano rinunciatario, orientato esclusivamente a un possibile accordo con Lufthansa, come la drastica riduzione del personale e della flotta suggeriscono. Non vi è dubbio che il rischio di un eventuale accordo con Lufthansa finirebbe per ridurre Alitalia a una piccola compagnia che per il lungo raggio alimenta solo gli hub di Francoforte e Monaco di Baviera, come già è successo con Air Dolomiti.

Eppure le previsioni di Eurocontrol e Iata dicono che il mercato del trasporto aereo riprenderà in pieno già dal 2022. Infatti, le maggiori compagnie stanno già facendo piani concreti di sviluppo, anche se occorre aggiungere che compagnie come Lufthansa e Air France erano in discrete condizioni prima della pandemia, mentre Alitalia, come abbiamo visto, sopravvive a malapena da vent’anni.

In questo contesto non si capisce con chiarezza la strategia (se esiste) che vuol seguire il governo. Neppure l’amministrazione straordinaria è al corrente delle interlocuzioni con la Commissione europea. E, ancora più grave, anche il Parlamento non è al corrente dei negoziati con Bruxelles, quel Parlamento che anche recentemente aveva chiaramente indicato al governo di mantenere in vita la compagnia di bandiera, come ha ricordato Stefano Fassina nella stessa audizione del 13 aprile.

Sembra impossibile che un Paese come l’Italia, compresa tra le maggiori potenze industriali del mondo, possa rinunciare a una sua compagnia aerea, che porta nel mondo la sua bandiera e che potrebbe essere un valido supporto all’industria del turismo. Ma forse si sta avverando quanto suggerì Loyola De Palacio, indimenticabile Commissaria europea ai Trasporti, nel 2001: le compagnie aeree europee devono consolidarsi per poter essere competitive nel mercato globale, in particolare nei confronti dei vettori statunitensi. E forse questo prevede che Alitalia scompaia nel ventre di un’altra compagnia aerea europea.