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Osservatorio IAI/ISPI

Il “soft power” del Regno Unito all’indomani della Brexit

25 Mar 2021 - Eleonora Poli - Eleonora Poli

Per le conseguenze radicali nel definire nuovi equilibri politici in Europa e nell’arena globale, la Brexit ha una portata storica paragonabile probabilmente alla caduta del muro di Berlino. A tre mesi dall’effettiva uscita del Regno Unito (Uk) dall’Unione europea (Ue), gli slogan sul “riprendersi il controllo” per lanciare una “Global Britain”, abilmente usati dal premier Boris Johnson e dai Brexiteers continuano a fare eco, ma Londra, che ha ora il pieno controllo sulle sue frontiere (o quasi), sull’immigrazione, sugli affari interni e sull’economia, per essere veramente un attore globale rilevante, deve dimostrare l’efficacia del modello Brexit.

In altre parole, la Brexit potrebbe divenire uno strumento di “soft power” utile al Regno Unito per rilanciare il suo ruolo nell’arena globale. Diversamente dallo “sharp power” che implica l’uso della manipolazione dell’informazione o dello “smart power”, che combina strumenti coercitivi ed ideologici, il“soft power” si basa sulla capacità di influenzare culturalmente e ideologicamente il resto del mondo, tramite modelli sociali, economici e culturali così attraenti che vengono spontaneamente imitati o presi come riferimento. Chi esercita il “soft power” può così condizionare decisioni di altri a proprio vantaggio, senza l’uso della coercizione.

Il potenziale soft power britannico non può però prescindere dalle performance politiche, economiche e sociali reali che si registreranno in questi mesi.

Divisioni interne
Per quanto riguarda la politica interna, il Paese è più diviso che mai. Alle dichiarazioni del primo ministro scozzese Nicola Sturgeon, che ha più volte sottolineato come il futuro della Scozia indipendente sia all’interno dell’Ue, bisogna aggiungere la questione nordirlandese, che è costata a Londra l’apertura di una procedura di infrazione da parte dell’Unione per il mancato rispetto degli obblighi derivanti dall’accordo di recesso (Withdrawal Agreement).

Anche la performance economica non è delle migliori. A causa della pandemia, nel 2020, il Pil Uk è sceso del 10,3%, molto più della media europea che è stata del –6,4% e di quella dell’Eurozona che è stata del -6.8%, ma anche del dato italiano che è stato del –8.8% secondo la Commissione europea. A questo si deve aggiungere un 2021 non proprio roseo visto che già a gennaio il commercio con l’Ue, da sempre il principale partner economico di Londra, è sceso di un terzo. Le esportazioni di beni vero l’Ue si sono ridotte del 38%, molto più che le importazioni, che sono diminuite del 16%.

Quest’ultimo dato non è imputabile solo al Covid, visto che nello stesso periodo le esportazioni e le importazioni verso Paesi non europei sono scese molto meno, rispettivamente del 7,5% e del 9,3% e sembra quindi essere una chiara conseguenza della Brexit e del ritorno delle frontiere con tutte le lungaggini burocratiche che ne derivano.

Un modello alla ribalta?
Ciò che il Regno Unito sta innegabilmente conducendo meglio di altri Paesi, e sicuramente di quelli dell’Unione europea, è la campagna vaccinale. Avendo somministrato la prima dose già a oltre il 38% della popolazione adulta, circa 28 milioni di persone, il governo britannico sembra stia dimostrando quanto la Brexit, almeno in questo, sia stata vantaggiosa.

Nonostante i morti in Uk siano stati circa 126mila, ponendo il Paese come primo in Europa in questa triste classifica, la campagna vaccinale, iniziata a dicembre 2020, tre settimane prima di quella dell’Ue, sta portando buoni risultati. Si prevede che entro la fine di luglio, la maggioranza dei cittadini avrà ricevuto almeno la prima dose, con la possibilità di un ritorno alla vita normale. Il panorama europeo è invece ben più grigio. Ad oggi poco più del 13% della popolazione europea è stata vaccinata, più o meno il dato italiano, dove solo 8,2 milioni di cittadini sono stata vaccinati, circa un quarto di quelli del Regno Unito.

Proprio per la questione vaccinale e per la capacità britannica di far fronte alla pandemia meglio di altri Paesi, almeno nell’ultimo periodo, il modello Brexit potrebbe tornare alla ribalta. La contingenza politica del momento, le prospettive di finanziamento di Next Generation EU, ma anche la gravità della crisi sanitaria ed economica, stanno sicuramente mettendo in secondo piano le spinte indipendentiste e nazionaliste di alcune partiti dei Paesi membri. Questo però non significa che un sentimento anti-europeo non sia ancora latente e non possa essere sfruttato al momento giusto da vari partiti sovranisti, in Italia come nel resto dei Paesi Ue.

Se è vero che al momento la maggioranza dei cittadini europei è concentrata su come sopravvivere umanamente, economicamente, psicologicamente e socialmente alla pandemia e si affida ai governi in carica per fronteggiare la crisi, una volta che la pandemia sarà superata i Paesi membri e l’Unione europea dovranno rendere conto dei propri errori, se ce ne sono stati. Questo riguarderà però anche il Regno Unito. È ancora presto per valutare gli effetti della Brexit sul Paese. Sicuramente ad una maggiore indipendenza corrisponde anche l’onere di promuovere un modello sociale, economico e culturale che sia così efficace da convincere quel famoso 48% che aveva votato contro la Brexit e da mantenere o addirittura rilanciare il Regno Unito tra le potenze mondiali.

Questo articolo è stato pubblicato nell’ambito dell’Osservatorio IAI-ISPI sulla politica estera italiana, realizzato anche grazie al sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Le opinioni espresse dall’autore sono strettamente personali e non riflettono necessariamente quelle dello IAI, dell’ISPI o del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.
Foto di copertina EPA/NEIL HALL