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Il dilemma del centrodestra Ue

Il passo di lato di Orbán a Bruxelles è una vittoria per il Ppe?

5 Mar 2021 - Gianni Bonvicini - Gianni Bonvicini

Finalmente fuori. È questo lo spirito con cui la maggioranza dei membri del gruppo del Partito popolare europeo (Ppe) al Parlamento di Strasburgo/Bruxelles ha accolto la notizia della decisione di Viktor Orbán di togliere il disturbo e di ritirare i 12 membri del suo partito, Fidesz.

Senza cantare vittoria, poiché un’uscita rappresenta pur sempre una sconfitta, il leader del gruppo, Manfred Weber, ha sottolineato che il distacco si era reso necessario per il continuo attacco di Fidesz ai valori del Ppe e dell’Ue, dal rispetto della democrazia a quello dei diritti e delle libertà fondamentali. Valori notoriamente calpestati in Ungheria con le ripetute chiusure di giornali, stazioni radio e perfino università non in linea con la politica del regime. È da anni ormai che questa situazione veniva tollerata sia all’interno del gruppo parlamentare sia del partito Ppe, anche se in quest’ultimo si era giunti nel 2019 a sospendere da tutte le cariche e dalle riunioni i membri del partito di Orbán.

Va anche poi ricordato che proprio all’interno del Parlamento europeo era scattata, nel settembre 2018, la richiesta di avvio contro il governo ungherese delle procedure previste per la violazione dei valori contenuti nell’articolo 2 del Trattato sull’Ue. Anche in quell’occasione la maggioranza del Ppe aveva votato a favore, pur con molti mal di pancia, anche da parte della delegazione italiana di Forza Italia. Eppure, malgrado tutti questi segnali allarmanti, Fidesz aveva continuato ad operare normalmente, almeno all’interno del gruppo del Ppe.

Si era quindi venuta a manifestare una chiara dissonanza fra la sospensione in seno al partito e la continua partecipazione alle attività del gruppo parlamentare. Un’ambiguità accettata dal partito egemone del Ppe, la Cdu della cancelliera Angela Merkel e la Csu bavarese di Manfred Weber, tutti e due, soprattutto quest’ultimo, riluttanti a perdere quel po’ di teorica influenza che ancora potevano esercitare sull’ingombrante vicino. Strategia largamente fallita, poiché nel frattempo Orbán non ha fatto altro che aumentare la presa autoritaria sul proprio Paese. Di qui la decisione dello scorso dicembre di modificare il regolamento del gruppo parlamentare con la possibilità di espellere un’intera delegazione nazionale e non i singoli membri. Con 148 sì e 28 contrari la modifica è stata approvata e Orbán, fiutato il pericolo, ha anticipato tutti ritirando Fidesz dal gruppo.

Una vittoria per il Ppe? In realtà fra quei 28 voti contrari si annida una fronda che non si limita ai soli 12 membri di Fidesz, ma che conta i rappresentanti del Partito popolare austriaco di Sebastian Kurz e di quello sloveno di Janez Janša, prossimo presidente di turno del Consiglio Ue e grande sostenitore di Donald Trump e delle sue azioni eversive. Insomma, una bella e pericolosa compagnia che preannuncia altri grattacapi non solo per il Ppe ma per l’intera Unione.

L’avere sopportato per tutto questo tempo i comportamenti ostili dell’Ungheria (e della Polonia) non ha fatto altro che alimentare il fronte dei Paesi che ostacolano in tutti i modi la solidarietà e l’integrazione europea. Basti guardare ai recentissimi comportamenti di Austria e Danimarca (da sempre euroscettica) nel cercare un accordo con Israele per la produzione di nuovi vaccini atti a combattere le varianti del coronavirus. O le ripetute chiusure del confine del Brennero da parte di Vienna con l’imposizione ai camionisti di tamponi validi entro il limite delle 48 ore. O ancora il diffondersi del cosiddetto sovranismo vaccinale, con la corsa a vaccini non autorizzati dall’Ema, l’Agenzia europea del farmaco.

Insomma, sembra davvero che, dopo il grande colpo di reni del Next Generation EU, le istituzioni dell’Unione stiano perdendo nuovamente il terreno che si erano miracolosamente conquistate la scorsa estate. Ci troviamo ancora una volta sul crinale pericoloso di atteggiamenti che troppo assomigliano alla strategia dell’exit, inaugurata dal Regno Unito, ma mai realmente scomparsa all’interno dei 27. Troppi Paesi, dall’Ungheria all’Austria, dalla Slovenia alla Croazia, coltivano un’idea di Unione che poco ha da spartire con lo spirito originario dell’integrazione europea.

Dove andrà a collocarsi domani Fidesz, se nel gruppo dei Conservatori e riformisti europei (dove sta Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni) o in quello ancora più estremista di Identità e Democrazia (dove si colloca la Lega di Matteo Salvini) è relativamente poco importante. Quello a cui stiamo assistendo in questi giorni è il fallimento della politica europea, che non ha saputo intervenire in tempo per affrontare le sfide interne ai suoi valori. Una grossa responsabilità la portano i maggiori leader europei, a cominciare da Angela Merkel, che con le sue troppe prudenze ha finito con il perdere la battaglia per un’Unione più coesa, efficiente e democratica. Oggi è quindi tempo di reagire a questo trend di continui compromessi e di dare vita ad una larga alleanza di governi e forze politiche, che abbiano la volontà e la forza di denunciare i comportamenti devianti, ormai diffusi in troppi paesi dell’Unione.

Foto di copertina EPA/Art Service 2