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Dopo 10 anni di guerra

In Siria serve un’urgente revisione di strategia

25 Mar 2021 - Laura Mirachian - Laura Mirachian

Chi ha vissuto a Belgrado durante le guerre degli anni Novanta sa quanto le sanzioni internazionali gravino sulla vita quotidiana della gente e quanta ostilità si accumuli nella mente dei cittadini contro chi le applica. Slobodan Milošević non fu certo abbattuto da anni di sanzioni, ma da assidue iniziative della comunità internazionale che coinvolsero mezzo mondo a guida Stati Uniti, Europa, Russia e mobilitarono tutta la strumentazione diplomatica, politica, economica, umanitaria, culturale e militare disponibile.

In quegli anni, a Belgrado lo scenario era desolante: sui banchi del mercato di frutta e verdura, qualche mela e qualche ceppo di insalata. Il rigido inverno balcanico, strade colme di neve, deserte e impraticabili, animali domestici allo sbando, abitazioni gelide e improbabili falò nei cortili, completavano il quadro.

Un quadro allarmante
La Siria non è mai gelida, ma il trattamento sanzionatorio cui è soggetta da anni colpisce una popolazione civile inerme, tra case diroccate, campagne abbandonate e deserti insidiosi ove tuttora si annidano jihadisti (molto spesso stranieri sconosciuti). Dieci anni di guerra, che abbiamo chiamato “civile” ma che sappiamo essere stata largamente foraggiata da attori esterni che ne hanno monopolizzato la paternità, con agende tra loro conflittuali.

Conseguenza vistosa, l’esodo epocale di metà della popolazione: i ceti medi che hanno potuto migrare in Europa, quelli meno abbienti che hanno cercato rifugio nel vicinato, quelli che vagano tra un villaggio e l’altro alla ricerca di un riparo e le schiere di giovani disperati che ritroviamo come mercenari nel Caucaso o in altri punti caldi dell’area. Non certo per corrispondere a una “vocazione”, ma per ottenere un salario minimo. Il disastro siriano non è imputabile a loro, ma a chi li ha ridotti in queste condizioni; gli stessi che non subiscono particolari danni dal rigido regime sanzionatorio, anzi. E che, diversamente che nei Balcani, non saranno mai chiamati a dar conto del loro operato, se non in qualche sporadico caso minore presso qualche tribunale nazionale.

Fonti Onu segnalano tre milioni di bambini privati dell’istruzione, il 90% della popolazione sotto la soglia di povertà e almeno il 30% delle case e degli ospedali distrutti. Il patrimonio culturale dilapidato. La corruzione imperversa, mentre crisi economica e sanzioni fanno la fortuna di trafficanti e filiere clientelari, come sempre in questi contesti. Il tutto aggravato dal collasso del Libano e dalla pandemia da Covid-19, in un contesto regionale altamente instabile.

L’influenza di attori globali
Dopo dieci anni, molte voci, civili e religiose, stanno levandosi in Occidente per un alleggerimento delle sanzioni, che registrano nel Caesar Act americano le condizioni più dure: in che modo, ci si chiede, le lunghe file per il pane o la benzina possono favorire riforme e democrazia? Non fu utile a suo tempo nei Balcani, tanto meno lo sarà in Siria, ove tra pochi mesi si svolgeranno elezioni dall’esito scontato. Nel mentre la Commissione che dovrebbe procedere a una riforma degli assetti costituzionali è paralizzata dai contrasti tra i protagonisti esterni che ne tirano le fila.

La Siria è di fatto divisa in zone di influenza: la Turchia a nord-ovest e nell’area di Idlib; gli Stati Uniti a nord-est a contrastare la nebulosa jihadista in area curda e monitorare le porte verso l’Iraq e la Russia e l’Iran sui due terzi del Paese nominalmente controllati da Assad. Le guerre non sono finite. E ai curdi sono stati affidati decine di migliaia di jihadisti soprattutto stranieri (campo di El Hol), che nessuno vuole indietro. “Abbiamo perduto tutti, noi opposizione e anche Assad” dichiarava recentemente Michel Kilo, oppositore storico ora rifugiato a Parigi.

Il Paese è il fallimento di una strategia occidentale contraddittoria, oscillante, essenzialmente securitaria, e mai coesa, ad eccezione della breve parentesi dell’abbattimento del sedicente Califfato. Una strategia che ha premiato la determinazione di altri protagonisti, Mosca e Teheran in primis, e le ambizioni di altri Paesi della regione. Dovrebbe essere ormai chiaro che il paradigma applicato dall’Occidente, centrato sull’obiettivo di un regime change sempre più improbabile, con il corredo di una forte condizionalità degli aiuti, non ha funzionato, e che la popolazione ne sta facendo pesantemente le spese.

Un percorso da seguire
Rimodulare le sanzioni in modo da colpire i vertici e non l’intero popolo, allargare le eccezioni umanitarie, mettere in sicurezza i più deboli, rafforzare la capacità di resilienza della gente con progetti limitati ai contesti locali, selezionando situazioni e interlocutori e isolando coloro che non si dissociano dal jihadismo, in larga sintesi ricalibrare i parametri verso ciò che è realisticamente possibile conseguire, sono tutti obiettivi alla portata.

E nel frattempo, sostenere con più convinzione il processo costituzionale a guida Onu in linea con la Risoluzione 2554 e seguenti. Una revisione urgente di strategia si impone, per ricostruire il popolo siriano prima ancora che il Paese, e offrirgli una prospettiva per il futuro.

Non si tratta di cedere ad una “stabilizzazione” del regime, ma, al contrario, di impegnarsi a fondo per sottrargli gradualmente gli spazi. Non solo per ragioni umanitarie, ma per recuperare per quanto possibile il deficit di credibilità che ha caratterizzato la gestione occidentale della crisi siriana (come di tutte le cosiddette primavere arabe). Un dovere al contempo morale e strategico per la stessa Unione europea, considerando che la crisi si sta svolgendo alle sue porte.

Foto di copertina EPA/YAHYA NEMAH