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Osservatorio IAI/ISPI

L’Europa alla guerra dei vaccini

25 Mar 2021 - Matteo Villa - Matteo Villa

“Se il coordinamento europeo funziona, bisogna seguirlo. Se non funziona bisogna andare per conto proprio”. Sono le parole del presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, pronunciate meno di una settimana fa. Ma dappertutto in Europa le opinioni sono simili, e lo sono soprattutto nei Paesi più grandi, che ormai si sono resi conto di aver sacrificato la velocità delle vaccinazioni dei propri cittadini (ed elettori) sull’altare della solidarietà intraeuropea.

Avanza a grandi passi una sorta di campanilismo vaccinale. Anche perché in fondo le spinte verso questo tipo di reazione sono ovvie e naturali: ciascun governo, anche il più europeista, risponde delle vaccinazioni della propria popolazione e non di quelle dei propri partner Ue. E non c’è leader europeo che non sia scocciato quando volge lo sguardo Oltremanica, dal momento che la campagna vaccinale britannica – malgrado anche laggiù le prime nuvole si addensino all’orizzonte – continua a correre: 46 dosi somministrate ogni 100 abitanti nel Regno Unito, contro una media di 14 nell’Unione europea. A poco vale chi fa notare sommessamente che i britannici abbiano raggiunto questo risultato a scapito delle immunizzazioni complete, ritardando cioè la somministrazione della seconda dose, tanto che a oggi la percentuale di persone completamente immunizzata in Uk ammonta al 3,3%, persino inferiore rispetto al 4% medio nell’Ue.

Perché nel frattempo altri due dati restano ben più eclatanti. Il primo: entro la fine di marzo il Regno Unito (popolazione 67 milioni) avrà ricevuto 15 milioni di dosi di vaccino AstraZeneca. Praticamente tante quante i 27 Paesi Ue messi insieme (popolazione 448 milioni), che a stento arrivano a 17 milioni di dosi. Un fallimento negoziale che continua a bruciare. A questa constatazione va affiancato il secondo dato: a febbraio l’Unione europea ha esportato 43 milioni di dosi di vaccini, 11 dei quali verso il Regno Unito. Gli Stati Uniti? Zero. Il Regno Unito? Zero. Solidali e aperti sì, stupidi no.

Il dato politico
Se la campagna vaccinale stenta a decollare, a farne le spese sono i cittadini – e, subito dopo, i politici e la politica. Martedì la Germania si è vista costretta a estendere il lockdown nazionale per altre tre settimane, fino al 18 aprile. Una decisione sofferta, presa da Angela Merkel dopo dodici ore di negoziati con i leader dei Länder, ma inevitabile di fronte alla ripresa dei contagi e a un livello di somministrazioni vaccinali che certo non consente di dormire sonni tranquilli.

E una decisione che rischia di sottrarre ulteriore consenso alla Cdu, il partito di Merkel che era tornato ai massimi degli ultimi otto anni grazie al rally round the flag della prima ondata di nuovo coronavirus in Europa (dal 26% di febbraio 2020 al 38% un mese dopo), ma è uscito con le ossa rotte dalle elezioni regionali di metà marzo ed è attualmente in caduta libera (28% negli ultimi sondaggi), proprio mentre prosegue nella disperata ricerca di un leader forte che possa succedere a Merkel. Tanto che proprio Merkel ieri si è vista costretta a un parziale passo indietro su un “pezzo” del lockdown, quello che avrebbe riguardato misure ancora più rigide per le vacanze di Pasqua.

C’era dunque da attendersi che gli animi si scaldassero, e che la Commissione europea (a guida Ursula von der Leyen, Germania anche qui) cominciasse a premere sulle case farmaceutiche. Ed è proprio di questo che i leader europei dovranno discutere oggi e domani: se, come e per quanto tempo bloccare le esportazioni di vaccini prodotti in Europa, rendendo strutturale e di massa l’azione adottata dall’Italia il 4 marzo, quando il governo aveva deciso di bloccare 250mila dosi di vaccini AstraZeneca diretti in Australia.

Le opzioni sul tavolo
La settimana scorsa la Commissione europea ha persino messo sul piatto la cosiddetta “opzione nucleare”: l’attivazione dell’articolo 122 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, che consentirebbe l’esproprio diretto dei vaccini prodotti dalle case farmaceutiche su suolo europeo e la loro distribuzione in Europa. È improbabile che si arrivi a tanto, ma il fatto che se ne discuta è indicativo di quanto la situazione si stia facendo tesa e complicata. Mentre è invece probabile che si arrivi al blocco temporaneo delle esportazioni, vincolato al parametro della reciprocità dell’avanzamento della campagna vaccinale nel Paese di destinazione prevista delle dosi. Tradotto: vaccini verso i Paesi in via di sviluppo sì, verso Londa e Washington no.

Da un punto di vista di logica sanitaria, bloccare le esportazioni di vaccini verso il Regno Unito ha perfettamente senso: Londra ha già completato la vaccinazione di tutte le fasce d’età a rischio e sta al momento vaccinando i 50-54enni. Una situazione totalmente diversa da quella europea. In Italia, per esempio, al momento solo il 18% della popolazione over-60 ha ricevuto almeno la prima dose di vaccino. Se utilizzata bene (ovvero sulla popolazione anziana e fragile) una singola dose di vaccino “vale” dunque molto di più in Italia, e in generale nell’Unione europea, che se utilizzata su una persona cinquantenne nel Regno Unito.

Ma, ovviamente, sulle considerazioni sanitarie continua a prevalere la politica. In Europa siamo scottati dalla Brexit, e dal fatto che alla fine dell’anno scorso il Regno Unito abbia deciso di andare completamente da solo. Nessun coordinamento, nessuna richiesta d’aiuto. Con una certa dose di imprudenza, Londra ha battuto Bruxelles sul tempo (autorizzando i vaccini a inizio dicembre e posticipando la somministrazione della seconda dose) e ha fatto tutto l’uso possibile della leva negoziale con AstraZeneca, azienda anglo-svedese con sede a Cambridge.

Adesso per i leader dei 27 Paesi europei che si riuniscono oggi in teleconferenza si tratta di rincorrere. E di dimostrare che i governi Ue saranno pure internamente solidali e aperti agli scambi internazionali, ma di sicuro non fessi.

Questo articolo è stato pubblicato nell’ambito dell’Osservatorio IAI-ISPI sulla politica estera italiana, realizzato anche grazie al sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Le opinioni espresse dall’autore sono strettamente personali e non riflettono necessariamente quelle dello IAI, dell’ISPI o del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.
Foto di copertina ANSA/CLAUDIO PERI