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A vent'anni dal viaggio in Siria

Bergoglio come Wojtyla: in Iraq per risvegliare le coscienze occidentali

7 Mar 2021 - Laura Mirachian - Laura Mirachian

La visita di papa Francesco in Iraq richiama quella compiuta da Giovanni Paolo II in Siria vent’anni fa, nel maggio 2001, pochi mesi prima della tragedia delle Torri Gemelle e della sequenza di avvenimenti che trascinò il Paese e l’intera regione nello scenario che avremmo incautamente chiamato “Primavere arabe”. Gli echi delle guerre balcaniche, che avevano inaugurato la tormentata stagione del post-Guerra Fredda, erano ancora nell’aria.

Wojtyla fu accolto dal giovane Bashar Al-Assad, da poco giunto alla presidenza con qualche inclinazione a liberalizzare un sistema economico asfittico, con profondo rispetto e devozione. Il suo gesto fu interpretato come una luce di speranza, che avrebbe aiutato il Paese ad emergere dall’isolamento, a intessere relazioni costruttive con l’Europa e l’Occidente, e forse a facilitare la pace con Israele. Non fu così. Ben presto, alla Siria furono applicate nuove sanzioni, dopo che fu accusata dell’assassinio del primo ministro libanese Rafiq Hariri, e l’Accordo di associazione con l’Unione europea, già negoziato e siglato sotto presidenza italiana, rimase nei cassetti di Bruxelles.

Come mai papa Wojtyla decise quel viaggio? Lo scenario siriano era molto diverso da quello iracheno di oggi. Certamente, l’obiettivo della missione era sostenere i cristiani, ancorché minoranza non minacciata e tradizionalmente raccolta attorno agli Assad (loro stessi minoranza alawita), incoraggiare il dialogo nel mosaico di religioni e etnie coesistenti nel Paese, promuovere un modus vivendi con Israele chiudendo un capitolo pluridecennale costellato di guerre e di rifugiati palestinesi e non. Ma era soprattutto stimolare la riforma del sistema politico-istituzionale verso assetti di libertà e democrazia che potessero dare respiro agli individui e alla collettività sprigionandone le migliori energie e superando le conflittualità latenti.

Il Papa polacco a Damasco
Questo era il messaggio centrale del Papa polacco: libertà e democrazia, coerente con la missione che ne aveva distinto l’operato ancor prima dell’ascesa al Soglio pontificio. Damasco, la città dei sette Patriarcati, spalancò per lui le porte della splendida Grande Moschea degli Omayyadi, in una cerimonia storica, che vide i cristiani protagonisti, assieme agli alti prelati delle antiche confessioni cristiane mediorientali, e alimentò anche la commossa partecipazione della maggioranza sunnita. Gli stessi sunniti, in quegli anni, percepivano il pericolo che la convivenza religiosa potesse venir meno, per l’affacciarsi di influenze islamiche estremiste che avrebbero spazzato via un regime pur oppressivo e non amato, ma che in nome della laicità si disinteressava delle religioni lasciando alle singole confessioni il compito di regolare la sfera personale dei cittadini. “Speranza nell’Islam”, scriveva padre Paolo Dall’Oglio dal monastero di Mar Musa in quegli anni.

Una missione, quella di papa Wojtyla, che trovava riscontro nella profonda spiritualità dei luoghi. Proprio sulla via di Damasco, secondo i testi sacri, san Paolo aveva avuto la folgorazione che l’avrebbe portato a testimoniare il cristianesimo presso i gentili, attuando quella”rivoluzione religioso-culturale” di cui siamo eredi. Una spiritualità ora sovrastata da oltre un decennio di odio e di conflitti, che hanno costretto all’esodo quasi la metà della popolazione, milioni sulle rotte balcaniche o verso i Paesi del vicinato, e causato oltre 400mila vittime.

La “Terza Guerra mondiale” a pezzi
Uno strazio che papa Bergoglio ha chiamato “Terza Guerra mondiale a pezzi” e spesso evocato nelle omelie della domenica rivolgendo un appello al mondo (“l’amato popolo siriano…”). La Siria di oggi è scomparsa dai nostri media, e ricompare sporadicamente come teatro di sacche residuali di jihadisti dell’Isis annidati nei deserti, di tregue precarie tra russi e turchi al nord (Idlib, area di Aleppo), di conflitti irrisolti tra centro e periferie (curdi del Rojava al nord, Dara’a al sud), di aspirazioni non soddisfatte dei ceti medi, e soprattutto di una presenza iraniana ingombrante per il vicinato arabo e per Israele.

La Siria è divenuta ostaggio di dinamiche che l’hanno travolta, nel mentre quel rinnovamento del “patto sociale” che Wojtyla aveva intuito essere necessario e urgente non ha mai avuto luogo. Lo scacchiere siriano è strettamente connesso a quello iracheno – il Siraq, si disse, con riferimento al quadrante siro-iracheno – non solo perché l’Isis vi insediò a suo tempo un “Califfato” trasversale, ma perché alleanze e assonanze tra formazioni combattenti continuano ad incrociarsi nei territori dei due Paesi nel contesto della cosiddetta guerra per procura dei protagonisti regionali. È ad Abukamal, al confine tra Siria e Iraq, che il 25 febbraio ha avuto luogo il primo bombardamento dell’amministrazione Biden, in risposta ad attacchi di formazioni filo-iraniane a una base militare della Coalizione anti-terrorismo a Erbil.

La visita di Francesco
Il viaggio di papa Bergoglio in Iraq si pone dunque, con i dovuti distinguo, in linea di continuità con quello di papa Wojtyla in Siria, segnalando la cura umana e umanitaria della Chiesa cattolica verso i cristiani del Medio Oriente e verso tutti i popoli che vi abitano.

Se in Siria Wojtyla sottolineò l’imperativo della libertà e della democrazia per restituire dignità ai singoli individui, il messaggio di Bergoglio è all’insegna dell’unione spirituale tra i popoli (“Fratelli Tutti”). Entrambi evocano comunque una memoria storico-religiosa che dovrebbe richiamare l’Occidente, e soprattutto l’Europa, allo spessore dei rapporti con una regione che non produce solo migrazioni e insicurezza, ma da cui abbiamo letteralmente importato una parte costitutiva della nostra cultura e dei nostri principi morali.

La visita di un pontefice non può cambiare i dati geopolitici, ma può forse risvegliare le nostre coscienze.

Foto di copertina ANSA/VATICAN MEDIA HANDOUT