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Da marzo ad agosto alle urne

Tutte le incognite dell’anno elettorale di Israele e Palestina

12 Feb 2021 - Nello del Gatto - Nello del Gatto

Il 2021 potrebbe essere ricordato in futuro come “l’anno nel quale cambiò la politica in Terra Santa”. Già perché per una strana congiunzione astrale, la terra sacra alle tre religioni del libro si troverà da marzo ad agosto in cabina elettorale. Comincerà Israele: il 23 marzo andrà alle urne la quarta volta in due anni, un vero record, per tentare di dare al Paese un governo duraturo.

Si passerà poi ai Territori palestinesi. Qui non si vota da sedici anni e lo scorso mese, il presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha annunciato la roadmap elettorale: il 22 maggio si terranno le elezioni per i membri del Consiglio legislativo (il parlamento dell’Autorità palestinese), il 31 luglio quelle per il presidente dell’Autorità e, un mese dopo, quelle per i membri del Consiglio nazionale, organo legislativo dell’Organizzazione di liberazione della Palestina.

Ovviamente, tutte recano incognite. Quelle che riguardano la tornata elettorale israeliana, sono solo politiche; quelle che riguardano la tornata palestinese, invece, sono sia politiche, sia risiedono nella stessa possibilità che le elezioni si tengano.

I nomi palestinesi, tra Fatah e Hamas
Partiamo da queste ultime. Dopo un accordo di massima raggiunto a Istanbul tra Hamas e Fatah e dopo l’incontro dei giorni scorsi al Cairo nel quale sono state definite diverse cose, la strada verso le elezioni palestinesi sembra spianata. Ma non del tutto, dal momento che restano ancora alcuni nodi. Se infatti è stato deciso che sarà il tribunale di Ramallah a decidere eventuali contestazioni, i giudici saranno nominati da Abu Mazen che, negli anni, non si è certo distinto per imparzialità, cosa che ad Hamas potrebbe poi non andare bene.

C’è poi il nodo dei risultati: cosa succederebbe se la lista unica tra i due partiti maggiori non venisse fatta e dovesse vincere Hamas? Come reagirebbero i molti Paesi che considerano terrorista il partito che governa a Gaza? Infine, c’è la questione leadership e candidature presidenziali. Scontata quella di Abu Mazen, che ne sarà di Ismail Haniyeh, leader di Hamas, che i sondaggi danno per vincente sull’ottuagenario leader di Fatah (così come il suo partito contro quello di Ramallah)?

In campo si sono fatti anche i nomi di altri candidati: scartato per legge (anche se molti Paesi arabi premono per farlo ammettere) perché condannato Mohammad Dahlan, l’uomo che ha favorito la conciliazione tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, dove vive; rimandate per ora le candidature di Jibril Rajoub, l’uomo dietro l’accordo tra Fatah e Hamas, così come quella di Saleh al-Arouri, vice capo di Hamas, ne resta una importante sul campo.

Il nodo Barghouti
È quella di Marwan Barghouti. L’uomo è in carcere in Israele e sta scontando cinque ergastoli e altri 40 anni di prigione, perché è stato ritenuto responsabile di una serie di attentati perpetrati dal gruppo militare che comandava, Tanzim, durante, soprattutto, la Seconda Intifada.

Barghouti, leader di Fatah, si è sempre dichiarato innocente e ha sempre condannato episodi contro civili sul suolo israeliano, ma è stato condannato da un tribunale israeliano nel 2004, accusato di essere stato anche a capo delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa. Ogni volta che si parla di elezioni nei Territori palestinesi si fa il suo nome per la presidenza, in chiave anti-Abu Mazen. Anche Hamas ha più volte detto di appoggiarlo nell’eventualità di una corsa.

Ieri ha ricevuto in carcere la visita (evento straordinario soprattutto per la pandemia) di un ministro molto vicino ad Abu Mazen. Alcune fonti giornalistiche riferiscono che, in verità, l’intento della visita sia stato quello di convincerlo a non candidarsi. Tra l’altro, pare che lui non potrebbe neanche prendere parte alla contesa. Barghouti, infatti, nel 2009 è stato eletto a Betlemme a capo del comitato centrale di Fatah e per un regolamento elettorale voluto da Abu Mazen, nessun membro del comitato può candidarsi. Tutta questa incertezza fa propendere molti osservatori per l’impossibilità di tenere le elezioni palestinesi, perché il banco potrebbe saltare, nonostante siano cominciate le procedure elettorali con l’iscrizione nelle liste e la scelta degli osservatori.

Netanyahu contro tutti
Più spianata invece pare essere la strada di Benjamin Netanyahu. Il più longevo premier israeliano, non dovrebbe aver ostacoli a guidare di nuovo il Paese. Resta solo da capire con chi. Gli ultimi sondaggi danno il suo Likud stabile a 30 seggi, e insieme all’estrema destra religiosa e laica, supera la soglia dei 61 per ottenere l’incarico di governo. Buona anche la performance di Gideon Sa’ar, l’ex delfino di Netanyahu fuoriuscito dal Likud; non dovrebbe, però, impensierire più di tanto il leader.

Il vero capolavoro politico che si ascrive Bibi è quello di aver fagocitato i suoi avversari, con il metodo del divide et impera. Ha iniziato con il centro-sinistra, dividendo il Blu e Bianco prendendo Benny Gantz nel governo e poi facendolo sparire politicamente. Ha continuato con la sinistra, chiamando nell’esecutivo due leader laburisti. Risultato? Il partito che ha fondato Israele e che ha governato per 30 anni, che ha espresso Ben Gurion (sulle ceneri del cui partito nacque il laburista), Meier, Rabin, Peres e altri, dai sondaggi non riuscirà neanche ad entrare in Parlamento, nonostante il cambio al vertice. Così pure come Meretz, forza socialdemocratica.

Altra divisione, fra gli arabi. Netanyahu ultimamente sta facendo campagna nei dintorni di Nazareth, nelle città arabe del nord e si è portato dietro Ra’am, il partito degli arabi che si è scisso dalla Lista Araba Unita che contava quattro formazioni. Inoltre, ha messo in lista, al 39esimo posto (quindi rendendone impossibile l’elezione), il primo candidato palestinese nel Likud, al quale però avrebbe promesso un ministero. Nonostante il processo che lo vede imputato in tre casi per accuse gravi come corruzione, che a marzo entrerà nel vivo, la popolarità di Netanyahu, complice la buona gestione dell’emergenza e del piano vaccinale (in verità un successo del sistema sanitario fondato dalla sinistra e che Netanyahu ha più volte attaccato e tentato di cambiare), gli accordi con i Paesi arabi e l’assenza di alternative, gli hanno spianato la strada.

Nella foto di copertina EPA/Atef Safadi proteste contro Netanyahu a Gerusalemme