Siria: il disastro economico oltre le tensioni geopolitiche
Quasi dieci anni di conflitto – a partire da quel fatidico marzo 2011 in cui ebbe inizio la locale rivolta – hanno drammaticamente trasformato la Siria.
Secondo l’Unhcr, circa 5,6 milioni di profughi hanno lasciato il Paese, mentre vi sono altri 6,7 milioni di sfollati sul suolo nazionale. Complessivamente, più della metà della popolazione ha dovuto abbandonare le proprie case a causa della guerra.
Il Paese è politicamente ed economicamente frammentato, sebbene il regime del presidente Bashar al-Assad abbia ripreso il controllo di circa due terzi del territorio. Un’amministrazione autonoma a guida curda governa le aree del nordest, mentre il gruppo islamista Hayat Tahrir al-Sham ed altre fazioni affiliate alla Turchia controllano la propaggine nord-occidentale.
Al momento, essendo la situazione bellica parzialmente cristallizzata (con l’eccezione della provincia nordoccidentale di Idlib), l’emergenza primaria in Siria è di natura economica.
Il collasso dell’economia
Il collasso dell’economia siriana è stato aggravato dalle durissime sanzioni internazionali (in particolare da quelle statunitensi dovute al Caesar Act implementato nel giugno del 2020), dalla crisi del settore bancario libanese, che detiene ingenti depositi siriani, e dalla pandemia di Covid-19.
Con un’inflazione galoppante, il potere d’acquisto delle famiglie siriane è crollato, mentre mancano generi di prima necessità come pane e combustibile. Se l’Iran è rimasto l’unico fornitore petrolifero del regime di Bashar al-Assad a causa delle sanzioni, la scarsità di grano è dovuta a un’ondata di incendi che ha colpito le aree governative e al calo delle esportazioni russe a seguito della crisi pandemica.
Il conflitto e le sanzioni internazionali hanno ulteriormente radicato un’economia fondata sulla corruzione e su dinamiche speculative. Damasco ha tentato in ogni modo di mantenere un legame fra lo Stato centrale e le aree al di fuori del suo controllo, al fine di conservare un certo livello di potere contrattuale sulle altre autorità di fatto presenti nel Paese.
Reti clientelari e traffici illegali vengono utilizzati sia dal regime che dalle altre amministrazioni sul territorio per ottenere beni di prima necessità all’interno della Siria e oltre-confine. Società di comodo e reti illegali sono essenziali al governo di Assad per evadere le sanzioni.
Il difficile processo di riconciliazione
Nelle aree governative, il processo di riconciliazione rimane fragile, soprattutto nel sud. I lavori della Commissione costituzionale siriana – che riunisce esponenti governativi e dell’opposizione, ed è stata annunciata formalmente all’Onu nel settembre 2019 – procedono con lentezza esasperante.
Il processo negoziale rimane principalmente sotto l’influenza di Russia e Turchia. Mosca ha cambiato le sorti del conflitto intervenendo militarmente a sostegno di Assad alla fine del 2015. Ankara esercita la maggiore influenza sui gruppi di opposizione.
Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti mantengono contatti con le tribù nella regione nordorientale del paese, attualmente in gran parte sotto il controllo curdo, dove risiede un residuo contingente americano di circa 900 soldati.
Un crocevia di tensioni internazionali
La Siria rimane un crocevia di tensioni internazionali, e un focolaio di instabilità regionale.
Ribelli siriani assoldati da Ankara sono andati a combattere in Libia, e più recentemente nel conflitto del Nagorno-Karabakh tra Armenia e Azerbaigian. Idlib ospita numerosi gruppi di ispirazione jihadista, mentre l’Isis continua a mantenere una presenza soprattutto nelle province orientali. Militari russi e americani compiono pattugliamenti nel nordest a poca distanza gli uni dagli altri, e incidenti (fortunatamente “stradali” più che militari) si sono verificati nel recente passato.
Dopo Mosca, è l’Iran che esercita la maggiore influenza economica e militare su Damasco. Milizie filo-iraniane sono presenti in varie zone del Paese, insieme a combattenti del partito sciita libanese Hezbollah, in particolare nel sud, in prossimità con il confine israeliano. Tel Aviv continua a bombardare a intervalli regolari le postazioni iraniane oltre-confine, e permangono i rischi di un’escalation israelo-iraniana fra Siria e Libano.
L’amministrazione del nuovo presidente Usa Joe Biden probabilmente manterrà il contingente statunitense in Siria, così come il regime di sanzioni volto a esercitare una pressione economica su Damasco. La presenza militare statunitense ufficialmente è ritenuta necessaria per contrastare l’Isis, ma più in generale consente a Washington di conservare un certo grado di rilevanza in un’area in cui convergono – e confliggono – interessi russi, turchi, arabi, iraniani e israeliani.
Difficilmente la Siria figurerà tra le priorità della nuova amministrazione, ma negli ultimi anni sono sempre stati gli sviluppi mediorientali a dettare l’agenda regionale di Washington, piuttosto che il contrario.
Foto di copertina Louai Beshara / AFP