IAI
Nuove regole per le piattaforme

Nella battaglia tra Australia e Facebook è il pubblico a perdere

26 Feb 2021 - Gabriele Abbondanza, Benedetta Brevini - Gabriele Abbondanza, Benedetta Brevini

SYDNEY. La battaglia australiana contro i giganti del web, i cosiddetti “Lord Digitali” ha attirato e continua ad attirare l’attenzione di milioni di persone in tutto il mondo. Il contesto è dei più spinosi: mentre le testate giornalistiche in tutto il mondo subiscono un costante declino, piattaforme digitali come Facebook e Google hanno il potere di assestare il colpo di grazia, decidendo cosa pubblicare e con quale livello di priorità. Di conseguenza, la domanda che nasce spontanea è: non sarebbe giusto che i giganti del web pagassero gli editori per poter condividere i loro contenuti su Internet?

Lo scontro con il social network
Sia Google sia Facebook si sono opposti strenuamente al disegno di legge australiano approvato ieri dal Parlamento. Alla vigilia del voto, quando Canberra ha confermato di voler proseguire per la sua strada, mentre il primo ha deciso di negoziare, il secondo ha optato per una rappresaglia che è diventata un caso internazionale. L’azienda gestita da Mark Zuckerberg ha infatti deciso di bloccare la condivisione di notizie sulla propria piattaforma, come ritorsione contro il “codice di condotta vincolante” sostenuto dal governo e dall’autorità per la concorrenza australiana (la Accc).

La minaccia è stata mantenuta, anche se Facebook ha adesso detto che le restrizioni – cioè l’impossibilità per gli Australiani di condividere notizie di testate giornalistiche sul social, e per gli utenti del resto del mondo leggere quelle delle fonti del Paese oceanico – saranno allentate.
Il problema rischia comunque di degenerare rapidamente, visto che la decisione lascia campo libero alle fake news che inquinano tutti i dibattiti vitali attualmente in corso, dalla pandemia di Covid-19 alla politica internazionale. Non solo, Facebook ha bloccato la condivisione di contenuti di centinaia di organizzazioni che niente avevano a che fare con questa battaglia, come quelli riguardanti le previsioni del tempo o aggiornamenti sanitari di vario genere. L’azienda si è poi scusata per quest’ultimo sviluppo, ma l’intera vicenda ha sottolineato il potere che i Lord Digitali hanno potuto accumulare negli ultimi anni.

Un compromesso debole
Gli amari sviluppi di questa vicenda hanno puntato i riflettori sull’Australia, ma la battaglia tra i governi nazionali e i giganti del web da tempo si combatte anche altrove, basti pensare a Stati Uniti, Francia, India, e Canada, tra i tanti esempi (ma anche all’Unione europea dove – due anni dopo la fine della battaglia sulla riforma del copyright – è in corso il dibattito sull’adozione di un Digital Act). In risposta alla ritorsione di Facebook, il primo ministro australiano Scott Morrison ha tentato di ottenere l’appoggio dei leader di questi e di altri Paesi, telefonando personalmente a molti di loro con l’obiettivo di creare un fronte compatto. Questo approccio multilateralista non deve sorprendere affatto – è infatti tipico della diplomazia di una “media potenza” quale l’Australia – tuttavia gli esiti si sono tradotti in un compromesso al ribasso.

Se è infatti vero che Facebook ha accettato di fare un passo indietro, è altrettanto vero che Canberra ha dovuto fortemente alterare il codice di condotta e la sua applicazione. Innanzitutto, d’ora in avanti il codice si applicherà unicamente nel caso in cui non sia stato raggiunto un accordo con gli editori, il che dà ai giganti del web il potere discrezionale di decidere quando e con chi sedersi al tavolo delle trattative. Inoltre, sono cambiate le tempistiche per i negoziati, concedendo più libertà e più tempo ai Lord Digitali per scegliere quale editore sostenere e se sostenerlo.

Poi, si ricorrerà all’apprezzato meccanismo dell’arbitrato solo dopo due mesi di trattative infruttuose tra i colossi dell’internet e gli editori, rendendolo di fatto una “ultima spiaggia” che sarà utilizzata in maniera estremamente rara.  Da ultimo, è stata eliminata la clausola di “non-differenziazione”. Ciò significa che Facebook potrà decidere di pagare in modo diverso le testate, senza criterio di equità e senza alcun controllo esterno. Notizie anti-scientifiche come la negazione del cambiamento climatico (comparse molto spesso sulle testate di Rupert Murdoch, che controlla il 60% della stampa australiana) potranno essere pagate molto di più di notizie di interesse pubblico, offerte però da testate minori.

Un’occasione sprecata?
In sostanza, nonostante le dichiarazioni vittoriose degli esponenti del governo australiano, a vincere sono i giganti del web (che mirano ad organizzare e gestire la condivisione delle notiziee i grandi conglomerati mediatici come quelli di Murdoch, mentre a perdere è il pubblico australiano, il quale dovrà accontentarsi di una informazione filtrata e parziale. 

Questa rappresenta senz’altro un’occasione mancata per l’Australia, la quale avrebbe potuto ergersi a Paese leader nella lotta allo strapotere dei giganti del web, come era in parte riuscita a fare nella lotta contro la pandemia.

Ciò che resta da vedere, a questo punto, è se gli altri Stati seguiranno l’esempio australiano del compromesso al ribasso, o se sceglieranno una strada senza dubbio più lunga, ma anche più meritevole di essere percorsa.

Foto di copertina EPA/Lukas Coch