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Il quadro regionale

Myanmar dopo il golpe: tinte fosche per la democrazia nel sud-est asiatico

8 Feb 2021 - Francesco Valacchi - Francesco Valacchi

Quanto era ormai temuto e previsto si è materializzato: a Yangon, Nay Pyi Taw e negli altri centri più grandi i militari hanno assunto il controllo delle strade, dei mezzi di comunicazione e dei centri di produzione e il generale Min Aung Hlaing ha preso il potere attraverso l’apparato militare. Il golpe in Myanmar scurisce l’intero panorama regionale.

Il capo del Tatmadaw (le Forze armate che hanno retto ufficialmente il governo birmano dal 1962 al 2011, anche se la vera transizione democratica è iniziata con le elezioni del 2015) ha di fatto rovesciato il governo il 1° febbraio prendendo in mano le redini del Paese. Numerosi dirigenti della Lega Nazionale per la Democrazia (Nld) sono stati arrestati (fra questi anche l’icona del partito Aung San Suu Kyi) e varie cariche istituzionali rimosse. Il generale si era pronunciato già durante la campagna per le elezioni dello scorso novembre affermando che il governo civile in carica, guidato dalla Nld, aveva commesso “inaccettabili” errori. La tensione era poi salita in gennaio quando i militari avevano formalizzato le accuse di brogli elettorali in capo alla Nld.

Il Tatmadaw ha arrestato il presidente uscente ed il vice presidente, peraltro membro del partito diretto dalla forze armate, e ha evocato la disposizione dello stato di emergenza per un anno. Quanto accaduto serve a dare pieni poteri al capo delle Forze armate per il periodo stabilito e ad arrestare un processo di instaurazione di istituzioni democratiche che languiva ormai da anni. I militari hanno visto una finestra di opportunità nell’interregno tra le elezioni e la convocazione del nuovo Parlamento e hanno forzato la mano per tornare al potere.

Pur avendo ottenuto un’elezione e la nomina democratica di governo civile, molti aspetti della vita politica interna del Paese del sud-est asiatico erano ormai inquietanti segnali dell’univoco fallimento di Aung San Suu Kyi, che, vale la pena ricordare, era già stata chiamata a testimoniare di fronte alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia in funzione di un procedimento per genocidio aperto contro il governo da lei informalmente diretto.

L’anziana politica, infatti, pur non potendo assumere cariche istituzionali per una legge statale che impedisce la rappresentanza politica in Myanmar a chi ha sposato stranieri, godeva di un’apparente tolleranza da parte dell’apparato politico (ancora decisamente influenzato dai militari) che le consentiva, come consigliere, di guidare il Paese. Durante il lungo periodo del mandato della Nld, però, il Paese ha dato prova di una involuzione democratica notevole, scivolando nuovamente fra gli Stati autoritari e al 135° posto nell’indice sulla salute della democrazia redatto ogni anno dal The Economist Intelligence Unit, dopo una breve parentesi di miglioramento nel 2015 e 2016 rapidamente archiviata.

Fra la pessima gestione della questione etnica, culminata con il massacro della minoranza Rohingya, e la sempre più pressante limitazione delle libertà di informazione che sembra attanagliare il Paese da un lungo periodo era chiaro che la strada intrapresa dalla Nld era ormai senza uscita.

Le carte della Cina
Pochi giorni prima dei drammatici eventi, era stato in visita in Myanmar il ministro degli Esteri cinese Wang Yi che aveva incontrato l’allora presidente, Win Myint, Aung San Suu Kyi e, naturalmente, l’attuale uomo forte dell’esercito, in separata sede. Come riportato dall’organo ufficiale di Pechino, durante l’incontro, Wang aveva elogiato il generale Min Aung Hlaing per il ruolo che l’esercito birmano aveva mantenuto negli sviluppi politici e nella rivitalizzazione del Paese (senza alcun riferimento alla democratizzazione) e si diceva sicuro che le forze armate avrebbero giocato un ruolo nel futuro approfondimento delle relazioni.

Dal momento che la Cina, assieme a Singapore, esprime la maggioranza di investimenti nel Paese del sud-est asiatico, con ogni probabilità Pechino vede nel governo militare un migliore alleato per controllare direttamente il Myanmar con la leva economica. A conferma di ciò, la rappresentanza della Repubblica popolare cinese alle Nazioni Unite ha bloccato l’azione di condanna del Consiglio di sicurezza.

Con il raffreddamento che ha subito il rapporto fra Usa e Cina, l’unico mezzo a disposizione di Washington per poter mitigare la situazione sono eventuali sanzioni che potrebbe decidere di applicare, ma questo non farebbe altro che spostare ancora di più Myanmar nell’orbita cinese.

Il ruolo del Giappone
Un altro importante attore internazionale nella vicenda è il Giappone (Paese nel quale si sono già verificate alcune manifestazioni di solidarietà con il governo rimosso, da parte di cittadini birmani), che ha promosso notevoli investimenti nel paese, teme per la stabilità e monitora la situazione. La singolare posizione di Tokyo però non ha visto ancora una condanna secca come quella statunitense, e si è limitata a incoraggiare le élites birmane a risolvere gli eventi in maniera pacifica, forse per il timore di rappresaglie economiche sui consistenti investimenti da parte di un governo militare che ha tutte le chances di poter rimanere in carica per almeno un anno.

Con questo golpe, i governi militari nell’area Asean salgono di fatto a due su dieci, con la Thailandia (che formalmente rimane un regno, ma è controllata da una dirigenza militare dal 2014) e la situazione regionale deriva verso standard sempre  più illiberali.

L’unica speranza nel medio termine potrebbe essere una sollevazione popolare in grado di far desistere i militari e che riesca ad organizzarsi per subentrare nelle istituzioni politiche ma, dal momento che nel Paese non si è riusciti a formare una élite in grado di governare per oltre cinque anni, la possibilità sembra remota.

Nella foto di copertina EPA/Lynn Bo Bo forze di sicurezza a Yangon, in Myanmar