L’Unione europea e le rivolte nel mondo arabo: dall’entusiasmo all’isolamento
Attraverso una politica estera comune, la Comunità europea prima e l’Unione europea poi hanno storicamente reagito con iniziative di alto profilo ai grandi cambiamenti avvenuti in Medio Oriente e in Nord Africa. Dopo le due guerre del 1967 e del 1973, la Comunità europea reagì sviluppando la Politica mediterranea globale (in sostanza, una politica di accordi commerciali bilaterali con i più rilevanti Stati mediterranei) e il (seppur di breve vita) Dialogo euro-arabo.
Dopo gli Accordi di Camp David del 1978, i dodici ministri degli Esteri firmarono la Dichiarazione di Venezia, che replicava ai partner di Washington e Tel Aviv l’aver ignorato la questione palestinese e stabiliva i parametri per la diplomazia degli anni Novanta. Dopo la Guerra Fredda, l’Unione europea inaugurò una nuova fase delle relazioni internazionali e tentò di costruire una comunità di sicurezza nell’area mediterranea con il Processo di Barcellona. Nei primi anni 2000, si sviluppò la Politica europea di vicinato, in risposta sia all’allargamento a oriente, sia allo stallo del processo di Barcellona.
Una risposta finita nel vuoto
Sebbene le rivolte arabe del 2011 abbiano colto di sorpresa l’Ue, essa ha risposto rapidamente con una revisione della Politica europea di vicinato e rafforzando la capacità di azione della sua società civile. Tuttavia, a dieci anni dalle cosiddette Primavere Arabe, questo modello sembra essere andato perduto.
Risulta attualmente difficile individuare un’iniziativa innovativa e altrettanto visionaria da parte dell’Unione europea in reazione alle rivolte arabe in corso. La Politica europea di vicinato ha perso slancio e l’Unione ha adottato una politica di resilienza che sembra aver ridotto il suo impegno in favore della democrazia. Inoltre, l’Ue non ha presentato iniziative diplomatiche decisive in Siria o in Libia, lasciando spazio ad altre potenze, come Russia e Turchia.
In Israele/Palestina, dove l’Ue è stata un attore chiave negli ultimi decenni, si rileva un silenzio assordante di fronte all’intensificarsi delle violazioni del diritto internazionale. Infine, anche a livello regionale, l’Ue non ha preso posizione. Nell’ultima resa dei conti nel Mediterraneo orientale, sono gli Stati membri ad aver agito, mentre l’Ue è apparsa come un mero strumento per il raggiungimento dei loro obiettivi geopolitici.
Le ragioni dello scarso protagonismo Ue
Questa evoluzione è determinata da una varietà di fattori. In primo luogo, a livello globale, il potere statunitense nella regione si è ridistribuito in modo decisivo. Si è disinteressato alle rivolte arabe e ha abbandonato quasi interamente alcuni fascicoli (Libia, Mediterraneo orientale, Siria), agendo aggressivamente su altri (Israele/Palestina e Iran). Dato che l’Ue ha seguito per decenni il binario statunitense, non si ha semplicemente idea né di come riempire il vuoto lasciato dagli Usa, né di come affrontare le situazioni in cui essi alimentano i conflitti piuttosto che risolverli. Le politiche Usa in Medio Oriente non subiranno un cambiamento sostanziale con un’amministrazione Biden (ad eccezione di un tono più compromissorio nei confronti dell’Iran e al freno del massiccio commercio di armi degli Stati Uniti in Arabia Saudita).
In secondo luogo, a livello regionale, sono emerse o si sono intensificate grandi rotture geopolitiche a seguito delle rivolte arabe (tra Turchia/Qatar e Emirati Arabi Uniti/Arabia Saudita/Egitto da un lato, e tra Iran/Siria/Hezbollah e Emirati Arabi Uniti/Arabia Saudita/Egitto/Israele dall’altro). Essendo tali cesure legate a doppio filo ai conflitti regionali (Yemen, Siria, Libia, Israele/Palestina), l’Ue sembra aver perso l’orientamento per muoversi all’interno di tale quadro. Ciò è in particolare collegato al fatto che vari Stati membri dell’Ue sono stati direttamente risucchiati in queste spaccature e conflitti geopolitici.
In terzo luogo, anche all’interno della stessa Ue si è intensificata la contestazione. Ciò include, da un lato, la contestazione delle politiche migratorie da parte dei crescenti partiti nazionalisti etnocentrici, che sono già riusciti a influenzare le politiche migratorie nazionali e dell’Ue; dall’altro, il movimento #FridaysforFuture, a cui l’Unione europea ha risposto con il Green Deal. Anche quest’ultimo risulta essere tuttavia eccessivamente euro-centrico ed isolazionista.
Rilanciare una politica estera condivisa
Come risultato di tutti questi fattori, l’Ue ha reagito a malapena alla seconda ondata di rivolte in – tra le altre – Algeria, Libano, Iraq e Sudan, al contrario di alcuni dei suoi Stati membri. Il presidente francese Emmanuel Macron, ad esempio, è stato piuttosto presente in Libano. Sebbene l’Ue abbia già avuto problemi di visibilità e credibilità in Medio Oriente e Nord Africa negli ultimi decenni, ora questi livelli sono destinati a scendere a zero.
Come si può rilanciare una politica estera europea condivisa che garantisca gli interessi comuni (e non quelli particolaristici dei singoli stati membri) in una regione sempre più multipolare e frammentata? Urge una nuova visione complessiva basata sui punti di forza dell’Unione.
A livello globale, essa deve basarsi sulla cooperazione dell’Ue con le Nazioni Unite riguardo tutti i conflitti attuali, in Israele/Palestina, Siria o Libia. Ciò è necessario per giungere ad eque soluzioni, radicate nel diritto internazionale. A livello regionale, si deve ricercare una nuova visione per la sicurezza nel Mediterraneo; un’architettura energetica inclusiva nel Mediterraneo orientale potrebbe essere un buon punto di partenza. Infine, a livello locale, c’è bisogno di riformare le politiche intraprese in linea con le richieste dei movimenti di protesta nella regione: giustizia sociale ed ecologica, radicata nei modelli locali di democrazia.
Foto di copertina Epa-Efe/Virginia Mayo / Pool