La Nato riscopre il controllo degli armamenti
L’Alleanza atlantica è nata come un’alleanza difensiva per contenere l’espansionismo ideologico, politico e militare dell’Unione sovietica. Il disarmo, il controllo degli armamenti e la non proliferazione non appartengono al suo originario Dna e non vengono contemplati nel trattato istitutivo della Nato.
Il concetto che la sicurezza si possa ottenere non solo attraverso gli armamenti ma anche attraverso il loro controllo andò progressivamente maturando grazie a una coraggiosa iniziativa dell’allora ministro degli Esteri belga Pierre Harmel. A lui venne affidata nel 1967 la predisposizione di un rapporto che prefigurava per la prima volta la possibilità di affiancare, su binari paralleli, misure per la sicurezza militare e misure di distensione, inclusa una riduzione bilanciata delle forze militari.
Su tale base la Nato potè aprirsi alle prospettive di disgelo realizzatesi nel 1975 alla Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Csce) di Helsinki e al negoziato per il controllo e la riduzione delle armi convenzionali (Mutual and Balanced Force Reduction, Mbfr). Il negoziato portò alla firma nel 1990 del trattato Cfe – Conventional Armed Forces in Europe – che prevedeva una riduzione senza precedenti delle principali armi convenzionali dei due blocchi.
Lo sviluppo più significativo del nuovo approccio Harmel fu tuttavia l’estensione del dialogo anche al settore nucleare attraverso il trattato del 1987 con il quale gli americani, in piena intesa con gli alleati europei, concordarono con i sovietici di proibire ed eliminare tutti i missili terrestri a raggio intermedio (Intermediate-Range Nuclear Forces, Inf).
L’ora del disgelo
Con la caduta dei regimi comunisti e del Patto di Varsavia e la riunificazione della Germania si avviò un processo di riavvicinamento che stravolse gli equilibri precedenti. Gran parte dei membri del Patto di Varsavia e persino le tre repubbliche baltiche ex-sovietiche entrarono nella Nato, mentre un accordo con la Russia permetteva a Mosca addirittura di avere propri uffici nei locali della Nato.
La Russia fu ammessa a pieno titolo ai Vertici del G7 (divenuti, dopo il suo ingresso, G8) e consentì agli esperti occidentali l’accesso ai propri arsenali ridondanti, inclusi quelli nucleari, chimici e biologici in vista di un loro ridimensionamento (armi nucleari) o smantellamento (armi chimiche e biologiche).
Negli ultimi dieci anni si è sperperato questo enorme patrimonio di dialogo e di cooperazione, tornando a un confronto che ricorda quello della Guerra Fredda. È uno dei maggiori fallimenti della storia recente. Il primo a soffrirne fu proprio il settore del controllo degli armamenti.
Il collasso dei trattati internazionali
Nel 2007 Mosca cessò unilateralmente di applicare il Trattato Cfe e successivamente violò platealmente il Memorandum di Budapest del 1994 che garantiva l’integrità territoriale dell’Ucraina. L’amministrazione Bush junior, che già nel 2002 aveva denunciato il Trattato sulla riduzione della difesa antimissilistica (Anti-Ballistic Missile, Abm), decise a fine mandato di installare nuovi sistemi di difesa antimissilistica in prossimità della Russia.
Ma il colpo mortale all’architettura del controllo degli armamenti fu dato dall’amministrazione Trump con la denuncia del Trattato Inf, il ritiro dall’accordo sul contenimento del programma nucleare dell’Iran (Joint Comprehensive Plan of Action, Jpcoa), e dall’accordo Open Skies sulle ispezioni aeree reciproche, fino al rifiuto di prorogare il Trattato strategico New Start, nonostante le mezze aperture dell’ultim’ora.
Nel 2017 Washington si oppose fermamente anche al nuovo Trattato che proibisce le armi nucleari (Treaty on the Prohibition of Nuclear Weapons, Tpnw) e trascinò con sé i partner della Nato, convincendoli anche a sottrarsi all’obbligo di partecipare al relativo negoziato. Con l’eccezione dell’uscita dall’intesa con l’Iran, le gesta dell’amministrazione Trump vennero sostanzialmente avallate dai partner europei della Nato. Fu una stagione buia per la politica di controllo degli armamenti dell’Alleanza.
La svolta di Biden
Con l’uscita di scena di Trump e la nuova amministrazione Biden è spuntato un raggio di sole. Il rinnovo senza esitazione alcuna del Trattato New Start con la Russia da parte del nuovo presidente americano costituisce un primo segnale incoraggiante. È auspicabile che altrettanto avvenga ora anche per il ritorno all’applicazione dell’accordo con l’Iran.
L’apertura che ci si attende da Washington non potrà che ripercuotersi in seno alla Nato. Non è casuale che stia tornando in auge il binomio deterrenza/controllo degli armamenti che era al cuore del Piano Harmel. Vi ha posto l’accento il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg in un discorso pronunciato il 10 novembre, all’indomani della vittoria di Biden.
Dell’esigenza di rilanciare la politica del controllo degli armamenti in seno all’Alleanza si è fatto promotore lo European Leadership Network (Eln), think tank con sede a Londra, in un interessante studio pubblicato di recente.
Gli alleati europei e l’Unione europea devono sostenere tale processo. Ovviamente occorre fare i conti con una Russia sempre più assertiva ed autocratica. Ma non bisogna dimenticare che i maggiori accordi storici sul controllo degli armamenti con Mosca vennero stipulati proprio ai tempi della Guerra Fredda.
Nella foto di copertina EPA/Toms Kalnins una bandiera della Nato a Vilnius, in Lituania, in occasione dei 15 anni dell’ingresso del Paese baltico nell’Alleanza