In Polonia torna la protesta contro le restrizioni all’aborto
Nei giorni scorsi è entrata in vigore in Polonia una norma che vieta l’interruzione di gravidanza in caso di malformazione del feto, sancendo di fatto il divieto quasi totale di aborto nel Paese.
La legge che regolava la possibilità di interrompere una gravidanza nel Paese era già tra le più restrittive d’Europa. Nella forma attuale, permette alle donne di abortire solo in caso di gravidanze causate da stupro, incesto, o pericolo di vita della donna. Limitare il diritto all’aborto è un cavallo di battaglia che l’attuale governo guidato dal partito Diritto e Giustizia (PiS) sta portando avanti fin dal suo primo mandato; battaglia sfociata in grandi manifestazioni di piazza già nel 2016 e che ha portato alla nascita di uno dei più importanti movimenti per i diritti delle donne in Polonia, Strajk Kobiet (Sciopero delle donne).
La sentenza del Tribunale costituzionale
Ad ottobre, quando in piena crisi pandemica il Tribunale costituzionale polacco aveva sancito che l’aborto in caso di grave malformazione del feto fosse illegale, migliaia di persone erano scese in piazza in tutto il Paese per protestare. Le dimensioni della protesta, considerata da alcuni osservatori la più grande dai tempi di Solidarność, e il drastico calo di consensi subito dal PiS a seguito della decisione del Tribunale, hanno congelato la pubblicazione della sentenza nella Gazzetta ufficiale, passaggio necessario per darle valore esecutivo.
Quando mercoledì scorso la sentenza è stata pubblicata nella Gazzetta senza preavviso, si sono scatenate immediatamente nuove proteste di piazza, che durano da giorni sfidando pandemia e freddo. L’insistenza su questo tema è singolare, perché la decisione non gode del sostegno neanche degli stessi elettori del PiS, ma sembra piuttosto una mossa per soddisfare gli alleati di governo più estremi e ripagare la Chiesa cattolica polacca del proprio sostegno.
La battaglia per limitare la libertà delle donne nel disporre del proprio corpo è un fil rouge che accomuna frange, movimenti e partiti ultraconservatori in maniera transnazionale. Il diritto all’aborto, conquistato a fatica dalle donne, è, a tutti gli effetti, uno dei principali terreni di uno scontro che vede contrapposte una visione progressista che non può prescindere dalla piena parità di genere – compresi i diritti riproduttivi e sessuali delle donne – e una visione ultraconservatrice della società, spesso ispirata dalla religione, in cui il ruolo delle donne viene visto in primis come quello di madri e mogli, prima ancora che di individui e soggetti politici liberi.
Dagli Stati Uniti all’Italia
Non è un caso che una delle prime decisioni del neoeletto presidente degli Stati Uniti Joe Biden sia stata cancellare il divieto di erogazione di fondi federali alle organizzazioni non governative internazionali che praticano l’aborto, o semplicemente offrono informazioni a riguardo. La decisione cerca di controbilanciare i limiti ad esercitare il diritto all’aborto posti in diversi Stati federali.
Ne sa qualcosa l’Italia che viene indicata come Paese che non garantisce la piena applicazione della legge n. 194/1978 sull’interruzione volontaria della gravidanza dal Comitato sui diritti sociali del Consiglio d’Europa, facendo seguito a due casi finiti davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, per via dell’altissimo numero di medici obiettori che di fatto limita l’applicazione della legge sull’aborto.
La media nazionale è di 7 di medici obiettori di coscienza su 10, ma in alcune regioni questa percentuale supera l’80%, come in Abruzzo (80%), Sicilia (83%) o nella provincia autonoma di Bolzano (85%), arrivando fino a 88% in Basilicata e al 96,4% in Molise. Si aggiunge che l’Italia discrimina i medici non obiettori, i quali subiscono svantaggi lavorativi diretti e indiretti rispetto ai colleghi obiettori.
Tendenze e controtendenze
Per fornire un termine di paragone, in Germania la percentuale di obiettori è del 6%, in Francia del 3%, mentre in Svezia la legge neanche contempla che in una struttura pubblica un medico possa rifiutarsi, per motivi etici o religiosi, di prestare un servizio previsto dalla legge e/o assistere una donna che sceglie di interrompere una gravidanza. In questo contesto, negli ultimi giorni hanno destato particolare preoccupazione idee oscurantiste che circolano in parte della classe dirigente – come nel caso del capogruppo di Fratelli d’Italia nelle Marche – che vorrebbero la limitazione dell’accesso delle donne all’aborto come escamotage per limitare la denatalità, “travestite” da battaglie pro-vita.
Elemento comune di questo tipo di argomentazioni, culminate anche in aggressive campagne pubblicitarie di associazioni “pro-life” tanto in Polonia quanto in Italia, è che in nome di una presunta difesa della vita ignorano del tutto le donne come soggetto politico libero di decidere di sé e del proprio corpo, libere di scegliere innanzitutto se essere madri o meno, come se imporre la maternità non fosse una forma di violenza che lede la salute e il benessere psicofisico delle donne, privandole della propria soggettività e volontà.
Per fortuna ci sono anche segnali incoraggianti all’orizzonte. Nel 2020, infatti, le donne hanno conquistato il diritto all’aborto in Irlanda del Nord, Argentina e Nuova Zelanda. La speranza è che questi esempi superino le frontiere e diano conforto a chi si sta ancora battendo. Come diceva la poetessa e prima regista donna afroamericana Maya Angelou, “ogni volta che una donna lotta per se stessa, lotta per tutte le donne”.
Foto di copertina EPA/Leszek Szymanski