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Scenari ad alto rischio

Verrà il tempo di una distensione fra Iran e Israele?

3 Gen 2021 - Laura Mirachian - Laura Mirachian

Non è l’inizio né l’epilogo della travagliata vicenda mediorientale con epicentro l’Iran. Una matassa dai mille fili, che coinvolge protagonisti regionali e internazionali.

L’uccisione dello scienziato nucleare Moshen Fakhrizadeh il 27 novembre scorso – forse frutto della concertazione tra il segretario di Stato Usa Mike Pompeo e il premier israeliano Benjamin Netanyahu in un incontro con il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman su cui nulla è trapelato -, è solo l’ultimo vistoso episodio del conflitto in corso tra i grandi protagonisti nella regione, nell’anno apertosi, il 3 gennaio 2020, con l’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani.

Nella complessa contesa, Israele ha un ruolo cruciale. Ciò che la distingue dagli altri attori regionali è l’obiettivo perseguito, non l’ambizione di rinverdire i fasti del passato o di preservare o acquisire una supremazia politico-confessionale nell’area, ma la difesa della propria esistenza che Teheran si ostina a negare. Tel Aviv si è riservata il compito, mai rivendicato né smentito, di abbatterne le potenzialità nucleari e contenerne l’espansione di influenza in area mediante operazioni mirate. Che non sono giuridicamente ortodosse (extra-judicial killings), ma evitano il ricorso a scontri bellici frontali e minimizzano/azzerano le perdite di civili.

Da anni, Israele colpisce le postazioni iraniane in Siria e i convogli di armi che Hezbollah vi trasferisce. Era il 2010 quando il siluro informatico Sudnext puntato sulla centrale di Natanz paralizzava buona parte dell’apparato nucleare iraniano.

I nodi per la Repubblica islamica
In Iran, l’uscita di scena dell’Ayatollah Khamenei per malattia, l’approssimarsi delle elezioni presidenziali nel giugno 2021, l’imperversare della pandemia, la crisi economica, e non ultimo il calo dei prezzi petroliferi saranno il grande banco di prova della tenuta del Paese. Come si muove l’Iran, che obiettivi persegue? Che si tratti della ‘solitudine strategica’ percepita fin dal 1979, o della sopravvivenza stessa del regime oggi, Teheran pratica una ‘strategia di difesa avanzata’, poggiando sulle vulnerabilità del vicinato (prima ancora che sulle componenti sciite) e avvalendosi di un possente apparato missilistico, cibernetico, e nucleare. Di fatto, rivestendo il ruolo di spoiler degli equilibri storici organizzati dall’Occidente in area.

L’intesa sul nucleare del 2015 (Jcpoa) rinnegata tre anni dopo da Trump, con il corredo di massicce sanzioni, ha affrontato solo uno dei problemi.  La politica di ‘massima pressione’ non ha piegato il regime; anzi, ne ha rafforzato la componente oltranzista. Né il recente avvicinamento ad Israele di taluni Paesi arabi (ed altri che seguiranno) promosso da Trump, e accolto da Teheran con il consueto sussiego, può di per sé incidere su una conflittualità sistemica che impatta sulla sicurezza del vicinato, ma anche americana ed europea.

Il presidente-eletto Joe Biden eredita uno scenario scottante, che non potrà non gestire. Si pensi alla navigazione negli Stretti di Hormuz, dove transita almeno il 30% dei traffici commerciali mondiali, ivi inclusi gli idrocarburi.

Un nuovo processo diplomatico
Occorre un cambio di paradigma, prima che lo scenario diventi ingestibile. Se si vuole evitare la perpetuazione di conflitti che rischiano un effetto-domino e magari di sfociare in una corsa al nucleare nella regione, meglio immaginare, come fu per l’Europa della Guerra Fredda negli anni Settanta, un meccanismo di sicurezza che impegni i protagonisti regionali e internazionali. In altri termini, un nuovo processo diplomatico. Che come primo passo preveda il rientro iraniano negli adempimenti sanciti nel Jcpoa, e il (graduale) smantellamento delle sanzioni unilaterali americane, ma contestualmente estenda lo sguardo ai settori rimasti al di fuori dell’intesa. Il Jcpoa rappresenterebbe in tal modo non un risultato in sé ma un passaggio necessario, una misura fiduciaria per creare condizioni di progressivo miglioramento nelle relazioni di  Teheran con gli Stati Uniti e con il vicinato.

Un tale scenario non è impossibile. L’idea non è nuova. La stessa Russia, che da anni pratica acrobazie diplomatiche intrattenendo con l’Iran una non facile interlocuzione entro il Processo di Astana, e al contempo soprassedendo ai bombardamenti di Israele in territorio siriano, nel luglio 2019 ha proposto alle Nazioni Unite di lavorare “… a partire da consultazioni bilaterali e multilaterali con tutti i protagonisti regionali e non, per una Conferenza Internazionale che approdi a un’Organizzazione di sicurezza nell’area”.

Mosca ha evidentemente interesse a condividere l’onere della gestione dell’Iran, ma sono in molti anche in Europa ad immaginare uno scenario simile. Del resto, quando Trump tentò di riattivare all’Onu le sanzioni multilaterali contro l’Iran, trovò unanime opposizione in tutti gli altri membri permanenti del Consiglio di sicurezza.

Il ruolo di Europa e Italia
Durante tutti questi anni, l’Europa ha difeso fermamente la validità del Jcpoa, pur non applicando appieno lo strumento Instex ideato per circuire le sanzioni secondarie americane. Ora, che le condizioni a Washington parrebbero più favorevoli, potrebbe dare un contributo cruciale, attivandosi per uno scenario negoziale allargato e contribuendo ad individuarne formule ed articolazioni. Magari traendo spunto da quanto fatto assieme agli Stati Uniti per le crisi balcaniche degli anni Novanta, allorché l’intera strumentazione multilaterale fu messa all’opera e differenti circuiti di consultazione furono organizzati.

L’Italia in particolare – che ha mantenuto aperti i canali diplomatici bilaterali con Teheran – potrebbe sensibilizzare i partner più coinvolti del G20 di cui ha appena assunto la presidenza. Si tratterebbe di un esercizio lungo e certamente faticoso, ma che varrebbe a valorizzare le componenti moderate a Teheran. Anche Israele ne trarrebbe vantaggio. Perché l’ultimo passo di questo percorso dovrebbe essere proprio il riconoscimento della presenza e legittimità di Israele da parte di Teheran.

“Non è ancora venuto il tempo” mi disse un autorevole interlocutore iraniano in un colloquio privato nei mesi scorsi, con ciò non escludendo che il tempo potrebbe venire.