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La strategia dell'Italia

Recovery Plan e crisi di governo: l’Europa ci guarda

28 Gen 2021 - Francesco Bascone - Francesco Bascone

Gli avvertimenti circa la vaghezza dei piani di utilizzazione del Recovery Fund, e la nostra impreparazione a gestire in modo efficiente quei finanziamenti, non sono più solo quelli di poco ascoltate Cassandre, ma sono ormai all’attenzione di tutti. Al più tardi dalla intervista, in toni allarmati, di Romano Prodi uscita su Repubblica il 26 gennaio scorso.

Lo sono però nel momento in cui non c’è nessuno che si senta responsabile di trarne le debite conclusioni: il governo dimissionario di Giuseppe Conte naviga con l’autopilota, la politica è occupata con le sue consultazioni, contrattazioni e trame. Il Recovery non è assente dalle discussioni, ma solo in quanto strumentalizzato per colpire un avversario, non oggetto di seri studi per produrre proposte convincenti per chi dovrà approvarle a Bruxelles. Riflessioni più concrete vengono solo da sedi interessate ad assicurarsi una fetta sostanziosa della torta: apprendiamo, per esempio, che le Ferrovie chiedono ben 28 miliardi (l’equivalente di sette ponti sullo Stretto).

Il nuovo governo, quando vedrà la luce, dovrà affrontare con urgenza il problema di come garantire che gli aiuti e crediti europei vengano utilizzati in conformità alle finalità concordate, piuttosto che per tappare croniche falle nei bilanci correnti, distribuire bonus a tutte le categorie e realizzare grandi opere che non sarebbero alla portata di un paese super-indebitato.

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La promessa di “spendere bene” quei soldi è troppo vaga, ed è neutralizzata dal parallelo richiamo a “fare presto”. Che nel dibattito politico nostrano si traduce perlopiù nel saltare le analisi di impatto ambientale e i controlli anti-mafia mediante “corsie di emergenza” piuttosto che nello snellire le formalità burocratiche e accorciare i termini di legge prescritti per gli adempimenti amministrativi e gli atti giudiziari.

Nella vicenda del Recovery Plan ci si era concentrati in un primo tempo sull’aspetto quantitativo. Il premier Conte era tornato da Bruxelles con una cifra superiore alle aspettative, guadagnandosi un plauso unanime. In realtà barattando un forte aumento dei crediti da rimborsare contro una riduzione di quelli a fondo perduto (forse un giorno, quando ci si accorgerà che i primi supereranno la capacità gestionale e la soglia di sicurezza dell’indebitamento, rimpiangeremo quel pugno di miliardi a dono cui abbiamo rinunciato). Nella fase attuale le preoccupazioni si concentrano sul fattore tempo. Non siamo in ritardo sulla presentazione dei progetti (c’è tempo fine al 30 aprile, ndr), ma il tempo scarseggia per la loro concreta elaborazione. Il dibattito dovrebbe spostarsi sui contenuti.

La finalità del programma  Next Generation EU, non dimentichiamolo, è di aiutarci a sormontare la terribile crisi economica causata dalla pandemia, ma cogliendo l’occasione per affrontare le grandi sfide del cambiamento climatico e di quello tecnologico, nonché le disuguaglianze: non è dunque un qualsiasi programma anti-recessione di stampo keynesiano, cioè di deficit spending per ravvivare la domanda. Se il pericolo è la morìa di piccole e medie aziende e il dilagare della disoccupazione, il criterio guida nella scelta dei singoli progetti deve essere quello di massimizzare l’effetto occupazionale.

I grandi progetti capital-intensive, come le linee dell’alta velocità, creano – per definizione – meno posti di lavoro che le attività labour-intensive, come la formazione, l’assistenza ai malati e invalidi, l’educazione alla sostenibilità ambientale, gli asili-nido, i laboratori di analisi, la consulenza alle piccole imprese, o un apparato giudiziario più efficiente.

La scommessa della competitività
L’obiettivo centrale della Commissione, senza il quale non sarebbe stato possibile vincere le resistenze dei Paesi cosiddetti “frugali”, è di aiutare quelli più in difficoltà a uscire dalla crisi diventando più competitivi, e quindi capaci di stabilizzare il debito e fra qualche anno, auspicabilmente, cominciare a ridurlo. Al livello delle imprese, ciò significa aiutarle non solo a sopravvivere (mediante sussidi, rottamazione di imposte arretrate e crediti bancari presto deteriorati) ma a diventare più vitali, modernizzandosi.

Al livello di Paese, la competitività è data in primo luogo dalla capacità di attrarre investimenti. E questa presuppone in primo luogo una drastica modernizzazione della macchina amministrativa e di quella giudiziaria, mirando agli standard di efficienza dei nostri vicini. Sulla riforma burocratica, dopo decenni di vuoti proclami, è comprensibile il diffuso scetticismo; e invece la posta in palio meriterebbe uno scatto di volontà, una direttiva che imponga a tutti gli uffici legislativi uno sforzo di semplificazione entro scadenze rigorose.

Di riforma della giustizia si parla molto in materia penale, ma qui interessa il processo civile, le cui lentezze sono uno dei principali disincentivi agli investimenti, soprattutto quelli stranieri; i soldi per nuove assunzioni e per la digitalizzazione saranno una componente, ma non sostituiscono la revisione delle procedure. I progetti di informatizzazione, cui la Commissione è disposta a contribuire generosamente, dovrebbero consentire al nostro Paese di fare finalmente un balzo nella lotta contro l’evasione fiscale; la mancanza di mezzi tecnici non potrà più essere un alibi.

Recuperare il tempo perduto
Il nuovo governo dovrà recuperare il tempo perduto con la crisi e affinare gli strumenti per elaborare concretamente i progetti, per poi gestirli. Ma in un mondo ideale, nell’attesa, la società civile e la dirigenza amministrativa si attiverebbero: professori di scienza dell’amministrazione, diritto tributario e procedura civile verrebbero chiamati a redigere realistici progetti di riforme; lo stesso farebbero i rappresentanti dei medici per la medicina territoriale e la prevenzione; uffici studi di sindacati e associazioni di datori di lavoro cercherebbero di individuare e quantificare i profili professionali per i quali esiste una domanda potenziale e le esigenze di formazione a cui dovrà provvedere lo stato mediante innovazioni nell’istruzione e appositi corsi.

È in gioco – dice Prodi – “la salvezza stessa del Paese”, Next Generation EU “è un treno che non possiamo permetterci di perdere”. Ma c’è di più: non solo è un’occasione imperdibile per rimediare alle note carenze strutturali, ma è una prova di fronte ai nostri partner europei che dobbiamo a tutti i costi superare.

Con il debito pubblico che abbiamo accumulato e che passeremo alla “next generation”, perdere la fiducia dell’Europa sarebbe esiziale.

Foto di copertina EPA/Yves Herman / POOL