Pragmatismo e alta diplomazia per la politica estera di Biden
L’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca, pur se accompagnato dagli irrituali ostruzionismi trumpiani, pone, fin d’ora, seri interrogativi sulla qualità della “restaurazione liberale” annunciata dal presidente-eletto democratico, in un’America fortemente polarizzata, scossa dalla pandemia, e in uno scenario internazionale scompaginato dal demolitore Donald Trump.
Non basterà evocare il ritorno del vecchio ordine internazionale liberale e multilaterale; ci vorrà semmai una dose terapeutica di pragmatismo e di alta diplomazia.
Fra le nomine di Biden, quella di Antony Blinken come segretario di Stato, ha rassicurato – forse oltremisura – l’Unione europea, in quanto personaggio di formazione e di mentalità euroatlantica, che lo assegnerebbe a un ruolo privilegiato di conciliatore e rasserenatore dei rapporti con gli alleati dopo le ruvidezze della presidenza Trump. Peraltro, la maggior parte degli osservatori è dell’avviso che, se l’approccio sarà certamente amichevole e la comunicazione più soffice, i problemi dell’era Trump – commercio, spese militari, rapporto con la Cina -, non saranno facilmente rimossi.
Anche Kissinger era classicamente europeo, eppure le relazioni euro-americane con lui al dipartimento di Stato non furono rilassate, tutt’altro.
Che fare con Pechino
La nomina più interessante, tuttavia, è stata individuata da molti osservatori nella figura di Jake Sullivan, veterano di amministrazioni democratiche da Bill Clinton a Barack Obama e prossimo consigliere per la sicurezza nazionale. A lui sarebbero demandate le responsabilità maggiori nell’area pivot della politica globale, ossia l’Asia-Pacifico.
Sullivan, da parte sua, avrebbe espresso idee abbastanza chiare sulle relazioni con la Cina. In alcuni interventi, sulla rivista Foreign Policy, ha individuato due opzioni strategiche di massima. Contenere Pechino, oramai acquisita nel ruolo di potenza di portata e proiezione globale, sulla falsariga della strategia anti-Urss della Guerra Fredda; oppure focalizzare il ruolo regionale della Cina come attore primario del sottosistema Asia-Pacifico, con rango di grande potenza, ma ruolo sub-egemonico.
Questo però comporta un aggiustamento neo-realista nell’internazionalismo liberale riproposto da Biden, sul solco wilsoniano della tradizione democratica. Gli Usa, allo stato attuale, non sono in grado di sostenere un vero confronto su due fronti: in Europa con il tradizionale antagonista russo e, in Asia, con la più grande potenza apparsa nel mondo dopo il gigante Usa agli inizi del XX secolo, di gran lunga più strutturata dell’Urss della Guerra Fredda.
Incrinare l’allineamento con Mosca
Washington non potrà comunque eludere una elaborata strategia di contenimento del disegno cinese che, necessariamente, passa attraverso due tappe. In primo luogo, una calibrata politica asiatica che dosi attentamente gli aspetti di confronto con Pechino, affinché le piccole e medie potenze dell’area non si trovino costrette a una scelta impossibile, per l’intreccio delle interdipendenze, tra Usa e Cina.
Secondariamente, un reset della politica verso Mosca che non si affidi all’usurato schema delle sanzioni, ma miri a incrinare l’allineamento geopolitico russo-cinese. Un asse già piuttosto instabile, data la discordanza tra il progetto pan-continentale di Pechino (come la Nuova Via della Seta) e quello della Comunità euro-asiatica di Mosca (vedi le frizioni tra le due potenze sulle influenze in Asia Centrale, altro cortile di casa, prima dell’Impero zarista e poi della dissolta Urss).
Il nodo Taiwan
Infine, la nuova amministrazione dovrà inventarsi urgentemente qualche proposta creativa sul tema Taiwan, oltre la ormai insostenibile formula post-nixoniana dell’“Una Cina, due sistemi”. Si tratta del vero punctum crucis, laddove la Cina di Xi Jinping ha abbandonato la politica dei tempi lunghi e sfiderà la determinazione degli Usa a sostenere un confronto molto acceso, non escludendo, qualche esercizio di brinkmanship, per l’annosa questione della sovranità effettiva sul territorio insulare.
Alla vecchia Formosa imperiale, di Chiang Kai-shek, Pechino attribuisce, a questo stadio della sua agenda internazionale, il più alto valore simbolico delle sue rivendicazioni di primato nello scacchiere dell’Asia meridionale.