IAI
Dieci anni dalle Primavere arabe

Libia: un decennio di lenta ma inesorabile disintegrazione

17 Gen 2021 - Andrea Dessì - Andrea Dessì

A più di dieci anni dall’intervento Nato in Libia, rimane molto poco di un Paese che durante i primi anni 2000 vantava i migliori tassi di sviluppo e benessere nel continente africano. Dilaniato da un progressivo inasprirsi delle violenze, la distruzione e le ingerenze esterne, la Libia rappresenta oggi – e molto probabilmente per il medio futuro – un microcosmo di conflittualità, frammentazione e criminalità e nel bel mezzo del Mediterraneo con significative ripercussioni per l’Africa, l’Europa e il Medioriente.

La ripresa del processo diplomatico dopo la tregua di fine ottobre ha riacceso un barlume di speranza per la Libia ma sono molte le incognite future. Mettere un freno alla disintegrazione libica non sarà facile, specialmente per via della frammentazione libica e la moltiplicazione di attori coinvolti, alcuni dei quali non vedono nel processo diplomatico un veicolo per assicurare i propri interessi nel Paese.

Non sono da escludere, quindi, nuove azioni che cerchino di minare il processo diplomatico, come accaduto nell’aprile 2019, quando Khalifa Haftar, autoproclamandosi capo dell’esercito, con il sostegno di Francia, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Russia, diede inizio all’ultima fase del conflitto libico, avanzando verso Tripoli con l’obiettivo di sovrastare il Governo di accordo nazionale (Gna) riconosciuto dall’Onu ed emerso a fine 2015 dall’Accordo politico libico mediato dalle Nazioni unite.

Questo terzo capitolo del conflitto – che ha fatto seguito alle precedenti fasi della rivoluzione e all’intervento Nato del 2011, e i violenti scontri che seguirono le seconde, contestate elezioni del 2014 -, è terminato grazie all’intervento della Turchia a sostenegno del Gna di Tripoli, che ha messo fine all’avanzata di Haftar, ponendo le basi per un ribilanciamento delle forze militari e quindi per un cessate il fuoco tra il Gna e le forze di Haftar.

Da allora sono lentamente ripresi i negoziati Onu con la promessa di spianare la strada alla creazione di un nuovo governo di accordo nazionale e la preparazione di elezioni annunciate per il dicembre 2021. Sarà un percorso lungo e incerto, il fine del quale rischia però di dipendere meno dai libici stessi che dagli interessi dei vari attori extra-libici coinvolti nel conflitto.

L’interferenza straniera
Il processo diplomatico è infatti tenuto in ostaggio non solo dalle milizie locali, che vedono nei negoziati una maniera per formalizzare i loro nuovi ruoli di influenza, ma anche dai propri sponsor esteri, che guardano a questi interlocutori come un veicolo per assicurare i propri interessi di medio e lungo periodo in Libia, spesso a discapito di una reale riconciliazione nazionale. Il rischio più grande è quello che gli sponsor esterni preferiscono la certezza di mantenere la propria influenza su una parte della Libia all’incognita di quello che potrebbe accadere qualora emerga un governo nazionale, e che per questa ragione possano avere un interesse nel sovvertire il negoziato.

Ma questo processo di lenta disintegrazione della Libia si rispecchia non soltanto nelle divisioni politico-militari tra est e ovest e nel proliferare delle milizie, della corruzione e degli attori para-statali. L’elemento più preoccupante deriva invece dal progressivo declino di tutti gli indici socio-economici e di sviluppo in Libia, seppur con importanti distinzioni tra le diverse regioni del Paese. A pagare il prezzo più alto è quindi la popolazione che, insieme alle categorie più vulnerabili, prime tra tutti i rifugiati – ad oggi più di 585mila persone – si ritrovano a contendere con la graduale distruzione del tessuto sociale ed economico, l’aumento della radicalizzazione e il divampare dell’informalità, istituzionale, economica e politica.

L’assenza di un monopolio della forza
Lo spettro di una cosiddetta “somalizzazione” della Libia è ancora lì, e porta con se significativi rischi sia in ambito di unità territoriale della che nella continua esportazione di instabilità verso i propri vicini. Per l’Europa sono i flussi migratori, la sicurezza energetica e la minaccia terroristica a destrare più preoccupazione, ma questi sono semplici sintomi della più profonda atomizzazione del potere politico, economico e militare in Libia. Questa frammentazione nasce dall’impossibilità (o incapacità) di confrontare le molteplici milizie e gruppi armati nel paese dopo la caduta di Gheddafi.

Il problema del mancato monopolio sull’uso della forza rappresenta il peccato originale della transizione post-2011. Nella realtà dei fatti, però, l’Europa stessa – primi tra tutti la Francia e l’Italia – ha dato sostegno a varie milizie e attori non statali in Libia, utilizzandoli per il contrasto alla migrazioni, al terrorismo e la sicurezza degli impianti energetici. Come l’Europa, anche la Russia, l’Egitto, la Turchia, il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti sono tutti intervenuti in Libia, dando priorità ai propri interessi che poco hanno a che vedere con la Libia stessa e ancora meno con le aspirazioni popolari che portarono alla rivolta contro Gheddafi nel 2011.

Arrestare la crisi socio-economica
Fino a quando non si riuscirà a domare l’indipendenza delle milizie e dei propri network clientelari, instaurando un reale processo di riconciliazione nazionale capace di navigare gli interessi contrastanti dei molteplici attori esteri coinvolti in Libia ma al contempo dare risposte concrete alle rivendicazioni della società libica, il Paese continuerà a versare in questo circolo vizioso di fragilità, conflitto e frammentazione.

Per questo non si deve perdere di vista il crescente malcontento sociale interno alla Libia stessa, incluso in ambito di corruzione e l’uso improprio delle vaste ricchezze libiche. Se la crisi socio-economica e umanitaria non viene arrestata, non vi sarà negoziato diplomatico che tenga e il paese è destinato ricadere in un vortice di instabilità e frammentazione, il risultato ultimo del quale potrebbe anche sfociare in una vera e propria disintegrazione territoriale della Libia, uno scenario da incubo con profonde implicazioni per tutto il continente africano, come per l’Europa e il Medio Oriente.

Foto di copertina Mahmud TURKIA / AFP